Questa testimonianza è frutto delle registrazioni effettuate da Radio Libera “Mugello Full Music” di Borgo San Lorenzo, nel 10° anniversario della morte di don Lorenzo Milani ed è stato curato da Massimo Biagioni e Marco Innocenti.

Riflessione fatta da don don Cesare Mazzoni dopo la lettura del Vangelo di sabato 21 giugno 1977, nella chiesa di sant’Andrea a Barbiana.

“Ma essi non vollero riceverlo perché era diretto verso Gerusalemme”.
Don Lorenzo Milani è un modello di comportamento anche se in un ambiente che lo respinge, lo rinnega e lo fraintende. Modello per noi naturalmente. Nel Vangelo d’oggi ci sono degli spunti che opportunamente si prestano ad inserire la nostra considerazione nella liturgia di oggi. Il discorso della sequela: “ti seguirò dovunque tu vada” è quello della vita di don Lorenzo Milani, che non si è mai piegato o ha sbandato, lasciandosi strumentalizzare, ma ha mirato dritto allo scopo finale che al momento della sua vocazione gli è stato posto ed egli ha generosamente accettato.
“Ad un altro disse: “Seguimi”. Costui rispose: “Signore lasciami prima andare a seppellire mio padre”. Gesù replicò: “Lascia che i morti seppelliscano i morti, tu va e annuncia il Regno di Dio”.
“Lascia che i morti seppelliscano i morti”: questa lama tagliente che s’interpone tra la volontà dell’uomo che attua i suoi pareri, le sue mire oneste, umanitarie, e la vocazione dall’alto, questa decisione perentoria, questa spaccatura verticale, noi la troviamo in tutta la vita di don Lorenzo Milani. A volte un uomo di fronte a quell’esistenza rimaneva come senza fiato, tanta era, quella decisione, una donazione totale di se stesso senza condonare, a sé e agli altri, alcuna convenienza che invece trova posto nella nostra esistenza. La sua vita è stata una cosa sola.
Un’altro disse: “Signore lascia che prima mi congedi da quelli di casa”, ma Gesù rispose: “Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto al Regno di Dio”.
Questo Gesù tutto di un pezzo trova nella figura del sacerdote che noi siamo qui a ricordare un modello di sequela e d’imitazione. Il Signore viene obbedito e viene seguito proprio in questo modo. In modo inesorabile. Neppure seppellire, no!
Non si seppellisce più. Chi é morto è morto.
E’ logico che non è tutto questo il Vangelo, ci sono anche gli aspetti in cui si vede e si ammira la dolcezza, la mansuetudine, la pazienza infinita di Gesù. Però bisogna ricordare che c’è anche questo. Ciascuno ha la libertà di scegliere ciò che trova più congeniale al suo temperamento e alla sua vocazione. Queste considerazioni inseriamole nel discorso evangelico per ricavarne ciascuno, nella nostra vita pratica, quei suggerimenti e quelle indicazioni che fanno di una commemorazione di don Lorenzo Milani non una cosa retorica, vuota, parole fumose e nulla di più, ma un’occasione per vedere come nella nostra vita si può aumentare l’intensità dell’impegno e l’intensità delle applicazioni: sia per il nostro dovere personale, sia per dedizione, attenzione e donazione agli altri. Sempre “dentro”, altrimenti non si vede come inserire queste considerazioni entro la liturgia, dentro all’Eucarestia, dentro alla santa Messa.
In questo decimo anniversario della morte di don Lorenzo si riaccende, un pò dappertutto, l’interesse per questa figura particolare di sacerdote e di maestro. In coloro che fin da principio hanno investigato ed indagato le sue doti di maestro, sorge il desiderio di stabilire il rapporto tra la figura e l’aspetto di don Lorenzo come prete, parroco e la sua attività della scuola.
Che rapporto c’è fra il prete ed il maestro? Che rapporto c’era tra 1’ officina e la falegnameria e le aule, e la Chiesa? Sono alla pari? Sempre convinti che ogni considerazione è parziale e limitata perché questa sicuramente è una personalità e un’esistenza difficile da percepire, da recepire. Non lo dico per quelli che non l’hanno conosciuto, ma per quelli che gli sono stati fisicamente accanto e, solamente quando egli è morto, si sono accorti, con un brivido, che una specie di stella era passata accanto a loro e non se n’erano accorti. Resta il rimpianto di non aver capito nè la persona nè il momento storico.
Un episodio da lui narrato dà un po’ il senso a tutta la sua vita: un dì gli fu posta questa domanda: “Com’è che ti sei fatto prete?”
E’ evidente e tutti l’avevamo capito fin da principio che in lui c’era uno stile, una tempra, una verve, un’idea, una fiamma, una febbre diversa da quella di tutti. Non era un prete alla maniera normale, era fuori di tutti i gerghi: anche il modo con cui diceva la Messa era diverso da tutti. La sua era una Messa parlata. Come parlava alla gente così parlava all’altare. Leggeva sul messale come sui libri di storia e geografia. Vale a dire sembrava ci fosse questo concetto teologico implicito nel suo modo di dire la Messa. E’ la normalità della vita che attraverso questo Mistero ci innalza al Signore e quindi non c’è bisogno di fare con la voce delle cadenze, di calate, una specie di nenia come tante volte ci si trova anche inconsapevolmente a fare noi sacerdoti. Insomma (la risposta del Priore) dava nell’occhio.
“Un giorno durante la guerra passavo per un viuzzo vicino a Palazzo Pitti con in mano una bella fetta di pane. Da una finestra una donna che teneva in braccio un bambino mi urlò: “Non si mangia il pane bianco nelle strade dei poveri! ”. In quel momento mi accorsi degli altri, dei loro bisogni, da quel momento decisi che sarei vissuto per loro” .
Questo fu il crollo di tutta la cultura, che era immensa, di don Lorenzo Milani. Lui la rinnega perchè le imputa questa colpa: “non mi ha permesso di accorgermi che c’erano gli altri, che avevano bisogno di me, che la mia cultura poteva soccorrere, sopperire alle loro necessità. La mia cultura mi ha impedito di aprire gli occhi sul fatto che la classe, alla quale appartenevo, viveva sullo sfruttamento e sull’umiliazione degli altri ”. A questo punto rinnega tutto il suo passato.
Questa decisione arrovescia dunque il senso della sua vita. Per esempio era un pittore appassionatissimo, quella doveva essere la sua carriera, la sua vita. Da quel momento non prenderà più in mano un pennello. Ha una grande cultura, ma non leggerà più un libro, salvo che insieme ai ragazzi (ponendosi) quindi a un livello molto più basso. E’ di famiglia benestante, rinunzia alla parte d’eredità in favore della sorella restando spesso senza un soldo in tasca. Appena di soldi ne arrivano c’è da far fronte ad un bisogno, o di qualcuno o della scuola. Era per questo molto attento. All’arrivo del pagamento della congrua mi diceva: “Passa per favore dall’Ufficio Postale e guarda se è arrivata”. Era anche sollecito nel cercare di ottenere quella parte di spese che allora era rimborsata dalla mutua diocesana. Non posso non dire di una litigata che fui costretto a fare perchè da parte di qualcuno furono usate delle espressioni pesanti per il fatto che don Milani voleva il contributo della Mutua diocesana senza aver potuto pagare regolarmente le quote.
Sempre dal lato della povertà rammentiamo la branda militare che egli scelse e tenne come suo letto, quella che è ancora nella casa di Barbiana (pare che sia quella del Maresciallo dei Carabinieri di Calenzano, ucciso durante la guerra). I suoi sandali erano fatti di copertone di automobile, non ha voluto mai un’automobile propria. A Calenzano si serviva d’una bicicletta, a Barbiana usava una Vespa scalcinata. Non è che fosse un giansenista, rigoroso su tutto, penitenza assoluta. Per esempio gli piaceva molto il pesce, la birra e la cioccolata, e non faceva il viso mortificato se arrivava chi gliene portava.
La rinuncia alla fidanzata è una conseguenza della decisione di vivere per gli altri. Mi riferisco ancora a quando non sa di farsi prete. Dirà in seguito che chiunque si dedichi ad una missione sociale deve restare celibe: maestri, sindacalisti, medici non debbono più avere una vita propria perché questa sottrae tempo agli altri e alla missione che devono compiere. Egli crede di trovare nella Chiesa e nel ministero del prete quello spazio ideale per una totale dedizione agli altri. Tutte le espressioni che nelle Scritture e nella Liturgia parlano della vita spesa per gli altri, per don Lorenzo Milani, non sono solo belle parole, sono un ammaestramento, un incitamento al compimento di un dovere, di una donazione totale. Questa donazione per esempio si configura così: don Milani non si prende mai un’ora di riposo, mai al mare o in montagna, e dentro alla sua attività, nella scuola non doveva esistere neppure un minuto buttato al vento. Proprio a questo proposito sono nate delle scenate e dei maltrattamenti ai ragazzi ed anche ad ospiti poco prudenti. Don Lorenzo parte dal concetto che una volta che si è donato a Dio, e attraverso il vescovo si è donato alla parrocchia, e in particolare si è donato ai ragazzi, nulla più di se stesso gli appartiene. Per i ragazzi inoltre deve valere il concetto che la vita è un dono di Dio, sciuparla, anche in piccola parte, è mutilare se stessi, mutilarsi per sempre. Quando qualcosa fa perdere tempo, o qualcuno che non è del popolo gli sottrae tempo egli diventava inquieto. Si considerava responsabile di tutti i soprusi e degli sfruttamenti che da secoli la classe sociale dalla quale proviene ha perpetrato contro gli operai e contadini, e cerca di sdebitarsi nonostante veda la brevità della sua vita. Quando decide che l’annuncio del Vangelo deve passare attraverso il dono della parola ai ragazzi la sua scuola sarà di dodici ore al giorno per trecentosessantacinque giorni all’anno. La scuola è dunque una forma di apostolato, non è affatto una sua scelta, un suo hobby come molti credevano e credono ancora. Lo dice espressamente:
“Solo io e non per mia scelta ho dovuto fare della scuola la materia in cui sono più competente. La scuola in questo popolo ed in un tal momento non è uno dei tanti metodi possibili, ma è un mezzo necessario, un passaggio obbligato, né più né meno di quel che non lo sia la parola per i missionari dell’Istituto Gualandi o la lingua per i missionari in Cina”.
Una sera, lì sotto la pergola, con il prof. Aldo Capitini, un vegetariano, famoso antifascista, fondatore di un movimento contro la violenza a Perugia, e con Zangrilli, che era direttore didattico a Vicchio, don Lorenzo ad un certo punto concluse un discorso con queste parole:
“Sembra che voi propugnate l’idea che il problema dell’istruzione al popolo in Italia non si risolve altro che con una scuola laica e vi vedo salire su questo monte a vedere come funzioni così bene una scuola gestita da un prete. Non è mica successo per caso che io sia un prete”.
Così egli rivendica alla sua professione di sacerdote l’attività e la speciale competenza istruttiva e pedagogica che ha dovuto procurarsi, come dice espressamente in tutti i suoi scritti, per poter essere annunciatore del Vangelo ai suoi ragazzi, e tramite loro al suo popolo. Quindi rapporto di dipendenza diretta tra la missione di sacerdote e quella di maestro. Alberto, un amico dei ragazzi a Barbiana, che è stato qui per mesi, disse ad una riunione commemorativa alla Casa del Popolo di Castello, che Milani maestro, Milani pedagogo, Milani sociologo, sono tutti attributi supplementari della sua unica vocazione: il sacerdozio.
Don Milani non si è sporto mai al di là dei limiti dell’ambito della competenza e della missione che gli è stata affidata dal Vescovo. Questo và detto, altrimenti non si capiscono neppure le altre dimensioni o attività da lui esplicate.
Un’espressione mi colpì, la scuola a don Lorenzo, è capitata di farla per caso, perchè prima di tutto è un sacerdote. Se il vescovo l’avesse mandato in una parrocchia di settemila persone avrebbe usato altri strumenti, come se avesse dovuto fare il cappellano in un ospedale. Questo è evidente, e non ci sono fraintesi, anche lui lo dice: “non l’ho fatto per mia scelta ”.
Importante è rivedere questo prete che fa scuola come tanti altri, come Giuseppe Calasanzio, S.Giovanni Bosco. Non per sminuire la sua dedizione e il suo impegno a tempo pieno, ma per vedere come lui, con tutta la passione dell’anima, ha cercato di attuare la sua missione di sacerdote nel modo con cui ha detto che il passaggio è obbligato. La prima passione di don Lorenzo era quella d’essere prete e di fare l’annunciatore del Vangelo, e non quella di istruire. I suoi scritti lo dimostrano. Per un lungo periodo l’opinione pubblica media non pensò che il metodo di don Milani fosse uno dei tanti possibili, ma lo si bollava come uno che aveva l’utopia della scuola, che era un fissato. La sua dedizione così perentoria, così inesorabile, si spiega in modo naturale. Fu detto di lui: ”Ebreo prima e dopo la conversione”. Mi sembra più giusto spiegare le cose con concetti cristiani. Chi ha rinnegato se stesso si realizza di nuovo in quanto si spende totalmente nella missione che ha ricevuto. E qui salta fuori il discorso del Vescovo: il ministro e l’ordine sacerdotale si situano e si giustificano solo nel vescovo, ed il ministero del prete si vivifica in quanto si attua la comunione con il vescovo. Si capisce il perchè dell’attenzione di don Lorenzo verso il giudizio del suo vescovo e perchè quando il giudizio di quest’ultimo era ambiguo ed ingiusto, sì da far fraintendere l’operato del parroco di Barbiana, pretendesse soddisfazione, o la rettifica del giudizio espresso e una conoscenza più approfondita dell’argomento e del contesto. In modo che non ne soffrisse il suo apostolato per il bene di quel popolo che il Vescovo gli aveva affidato. A questo proposito, purtroppo, l’equivoco di partenza non si è mai voluto chiarire almeno per quanto mi risulta. Si può ben dire che l’atteggiamento del vescovo è stata la sofferenza maggiore di don Milani. Se qualche volta, per caso, è uscita qualche mezza parola che non aveva senso o non era accettabile, per cui ho dovuto oppormi a don Milani, è stato quando è venuta meno la speranza di un atteggiamento del vescovo che liberasse il priore di Barbiana dai numerosi dubbi che lo circondavano.
A chi non lo conosce direttamente, da quel che se ne dice in giro, don Milani in quel periodo può apparire, come anche lui diceva, un paranoico, un fanatico, abbandonato dalla Chiesa. Questo gli faceva venire le vertigini, non stava in sé perchè questo avrebbe vanificato la sua scelta, fatta all’inizio quando cessa di essere pittore, fidanzato, figlio di famiglia ricca e benestante. Facendo questo sacrificio non vuole correre il rischio di poter classificare il suo apostolato come un fatto privato, qualcosa di simile all’operato di un pastore protestante. Ha sempre avuto una fiducia sconfinata che il vescovo rendesse giustizia (alle parole scritte dal vescovo): “I Tuoi superiori hanno ritenuto di non riconoscere in te la necessaria disposizione alla carità pastorale, ma piuttosto lo zelo fustigatore che ti fa apparire dominatore delle coscienze prima ancora che un padre ”. Quindi: mancanza di carità pastorale, demagogia, classismo. Don Lorenzo non riesce ad ottenere niente nonostante le sue insistenti richieste, neppure nel marzo del ‘67 quando ormai avrà pochi mesi di vita, in un colloquio a Barbiana, più che un incontro uno scontro, svoltosi in camera per l’indisponibilità del priore, durato circa tre ore. Nonostante questo mai a don Lorenzo passò per la testa una minima traccia di dissenso, ed è qui dove la gente comune trova più fatica nel comprendere la figura di don Milani, perchè è questa la spiritualità cattolica. Per qualcuno sarà il difetto, ma per noi è il pregio. La genuinità di un cattolico si riconosce da questo fatto, l’impossibilità di pensare alla deviazione, al dissenso. E nonostante tutto don Milani ha lavorato per la Chiesa ed offre il frutto delle sue fatiche al vescovo: la scuola ed i suoi ragazzi.
“Le porgo una mano, vuole ereditare i miei ragazzi, vuole ereditare la mia umile opera -si rendeva conto che la sua fine era prossima- vuole ereditare dove io ho seminato, vuole partecipare all’abbraccio affettuoso dei poveri che mi vogliono bene?” Anzi, volendo, si può scoprire una specie di rammarico riguardo il suo comportamento verso il vescovo, e si nota nelle sue parole: “ho servito per 17 anni la chiesa cattolica, vorrei oggi per una volta servirla , la Chiesa, anche nei suoi ministri, che purtroppo fino ad oggi ho trascurato, anzi dimenticato”. Se ne fa quasi una colpa del fatto di non essere stato capito e giudicato con giustizia e obiettività dal suo vescovo.
Si dice che don Lorenzo era un prete tradizionalista, e forse nel termine buono della parola certamente è vero; per esempio il sabato sera faceva confessare tutti i suoi ragazzi, nessuno escluso, e come pure, sempre a titolo esemplificativo, poteva capitare, a noi che ospitavamo una persona di non osservanza cattolica, di fare uno strappo alla regola e mangiavamo la carne insieme all’ospite. Lui invece no, e diceva: “noi facciamo astinenza dalla carne, l’ospite ne mangi quanta ne vuole ”. Una volta insieme a don Lorenzo ed un sacerdote che io ho ammirato moltissimo, morto poco dopo don Milani, c’era anche un protestante, molto pio e bravo. Nel celebrare la messa, arrivati al momento della comunione, anche questo protestante si avvicinò per ricevere la particola, ma don Lorenzo non gliela fece fare e poco dopo mi disse: “don … voleva fare la Comunione -si apriva in quel tempo all’ecumenismo, aprire un poco agli altri e gli altri un poco anche a noi- ma non potevo, la disciplina è disciplina”. Don Lorenzo non transigeva, la disposizione è questa. Lui non era cattolico, e siccome la comunione era, ed è, la fibra più viva, perla e cuore della vitalità cattolica, non la si può dare ad una persona non di praticanza cattolica. L’amerò comunque perché è il mio prossimo e perché è creato ad immagine di Dio, ma non si può fare confusione! Già allora qualcuno cominciava a fare dei piccoli strappi alla regole nella Messa oltre quelli sanzionati dalla liturgia, ma don Lorenzo non fece mai assolutamente niente. La tonaca, per esempio, non l’ha mai tolta, neppure lavorando o viaggiando in vespa. Come dice l’Eda, nessuno l’ha mai visto senza veste. Per don Milani era uno di quei caratteri che da sempre sono stati nella tradizione cattolica, e può anche essere il segnale della differenza tra la vita di un santo, diciamolo pure, e la vita di noi, gente normale. Era preoccupatissimo nel tenere sempre l’anima spolverata da ogni ombra di peccato. Non ho mai visto un prete attaccato alla Confessione come don Lorenzo; non solo, ma si confessava molto volentieri da coloro che gli erano “avversari”, da chi gli faceva propaganda contro. Era tale il desiderio per i sacramenti della Chiesa che non contava più se la persona era nemica o amica. Tutte le volte che saliva a Barbiana un sacerdote a trovarlo era festa grossa, perché lui si sentiva in famiglia, si sentiva consolidato nella sua identità di sacerdote cattolico, e sentiva aumentato il legame con il vescovo anche se i rapporti erano tesi, perché tutti i sacerdoti hanno la radice nell’unico sacerdote ministeriale della diocesi: il vescovo.
Tutte le domeniche mattina erano impiegate per studiare con estrema serietà il Vangelo sulla sinossi di Lagrange. Questo veniva adempiuto con tale passione , con tale intensità e competenza da parte sua, e interessamento da parte dei ragazzi, che alla fine gli piovevano addosso molte domande, per cui in una intera mattinata, venivano spiegati pochi versetti soltanto.
Io né da vescovi né da preti ho mai sentito spiegare il Vangelo come don Lorenzo. Gli avevo messo un registratore sotto il letto con la preghiera ai ragazzi di accenderlo quando teneva quelle lezioni, in modo che mi rimanesse un qualcosa su cui studiare e imparare anch’io. Ma lui, per estrema umiltà o non so che cosa, non l’ha mai voluto far accendere. Oggi si potrebbero avere bellissime spiegazioni moderne delle Sacre Scritture.
Gli domando:
“Se tornassi indietro cosa cambieresti della tua vita?”
“La scuola non la farei per i ragazzi normali, quelli possono provvedere da soli all’inserimento nella vita, la farei solamente per quelli anormali, ritardati, o talmente svogliati da essere scartati dalla scuola ufficiale”.
“Credi che un tuo diverso comportamento avrebbe messo il vescovo e la curia in generale nelle condizioni di poterti valutare diversamente?”
“Probabilmente se dovessi ripetere una simile vicenda cercherei di informare più profondamente e con precedenza il vescovo per non metterlo davanti al fatto compiuto”.
Una volta accolse una famiglia alla quale aveva fatto del bene, siccome per l’Eda questo significava molto lavoro in più, le disse:
”Noi dobbiamo essere contenti, è un bel giorno questo, perché questi ragazzi sono una benedizione che Dio ci manda”.

Nel 1962 era già molto tempo che sofferenze e dolori lo affliggevano, specialmente la notte, e quindi aveva fatto delle analisi che doveva portare il fratello Adriano quando saliva a Barbiana. Per non attendere oltre mi pregò di telegrafare al fratello per poter conoscere l’esito. Feci come mi disse e gli portai la risposta: linfogranuloma. Saputo che l’ebbe pregò i ragazzi di cercare sul dizionario il significato, e su altri libri lesse: “durata media della malattia da due a cinque anni”. Quella fu la malattia che l’accompagnò per il resto dell’esistenza. Don.Lorenzo ha accettato la prematura morte con una naturalezza da far rabbrividire, per lui questo cancro era un’occasione di più per fare scuola ai ragazzi, per spiegare loro che cosa era il linfogranuloma. In seguito, in tutti i momenti dello svolgimento della malattia non permise mai che questa fosse di danno o di ostacolo alla scuola e ai ragazzi. L’Eda racconta che il male era molto più forte la notte, come se ci fosse una sorta di accordo tra don Lorenzo e la malattia, una mediazione che vedeva l’interruttore spento nel giorno e molto intenso la notte. Quando si accorse che la malattia aveva un decorso più rapido del previsto e stava per morire, per terminare “lettera ad una professoressa ” rubava il tempo alla notte. Tant’è che riuscì a far uscire il libro a Maggio mentre la morte lo colpì in Giugno. In "Lettera ad una professoressa” che lui chiamò un’opera d’arte, il suo di scorso di fede e di pedagogia poté essere completato.
Per diversi mesi la camera fu la scuola, non poteva più stare neanche sulla poltrona, e quindi i ragazzi dovevano andare in camera. Alla fine di Aprile dovemmo per forza convincerlo a trasferirsi a Firenze, in via Masaccio, dalla mamma, per le cure che altrimenti non potevano essere effettuate.
A Firenze si infittisce il suo spirito di cattolico osservante, e vuole addirittura don Bensi, suo direttore spirituale, tutte le mattine a portare la Comunione. Quando don Bensi ritardava don Lorenzo aveva la smania, non stava più nei panni. Quando andavo a trovarlo non si poteva più venir via, mi ricordo che avevo ancora i genitori e andavo da Dicomano a Firenze, non tanto perché ero un amico, ma perché attraverso il prete egli consolidava o trovava addirittura il mezzo per superare l’assenza del vescovo, in una diversa rappresentazione. Era fortissimo il suo desiderio d’aver’accanto un sacerdote.
Della morte egli ha un presentimento. Il sabato fece mettere la croce in camera (cosa che non aveva fatto prima per il rispetto che portava verso la mamma, di cultura ebrea) e fece predisporre per poter celebrare la Messa. Morì il lunedì dopo. Si fece leggere il rituale della cura e dell’assistenza agli infermi e ai moribondi. Lo faceva leggere a brani dai ragazzi e dagli amici, intervallando con sue divagazioni personali di cui ricordo vagamente il senso. Un’espressione che si sentiva spesso era questa “Soffre molto Priore ?”. Don Lorenzo in risposta alla suora che interpellava: ”Soffro il giusto ”. E poi in un altro discorso, quando gli viene chiesto quanto avesse ancora da soffrire: “Ho ancora poco, poi la misura è colma ”. Ad un certo punto dice: “Ti rendi conto di che cosa sta succedendo in questa stanza? Un cammello sta passando per la cruna di un ago ”.
Interpretare la sua vita attraverso la lente del Vangelo, e l’adoperare frasi bibliche nei suoi esempi, significano la consapevolezza de1la sua vita.
“Io credevo di aver fatto tanto, di essermi spogliato di tutto per potermi sdebitare verso il popolo e verso i poveri, ed ecco che Iddio mi ha maggiormente indebitato ricoprendomi delle cura e della benevolenza del mio popolo, dei miei ragazzi, di gente che la mia classe ha per secoli sfruttato” (la cura e l’assistenza era fatta a turno dai ragazzi). Ad un certo momento don Lorenzo gesticola, imita il suonatore di violino, per indicare i canti ed il corteo. Non vedeva ancora la sposa, la Chiesa, ma poi sì, eccola! Il quadro è completato: ancora un riferimento alla Bibbia. Egli soffriva terribilmente, la lingua gli si spellava, e per lenire le sofferenze attingeva da una brocca di tè ghiacciato. Poi preso il lenzuolo lo scaglia lontano. Al fratello Adriano che lo sgridava fece capire che quel gesto significava la sua completa spoliazione dei beni, Dio, nudo l’aveva fatto, e nudo doveva restare, come S. Francesco che volle essere deposto “sulla nuda terra ”. Questo particolare può anche non piacere, però quando tal particolare (verrà inserito) in una conoscenza più profonda dell’uomo, dell’opera e della fede, molte cose saranno ancora più chiare.



Intervista a DON CESARE MAZZONI CONFESSORE DI LORENZO di LAURA PASSERINI - 18 Marzo 1982

Quale è stato il "dopo Don Milani" a Barbiana?

“Fin da quando c'era Don Milani, lo spopolamento l'era già iniziato, indipendentemente dalla prevista “partenza” di Don Milani. Diverse famiglie avevano però frenato la corsa ai posti nelle fabbriche e all'impiego. Infatti dopo che Don Milani aveva fatto conseguire l'avviamento industriale ai loro figlioli, aveva fatto loro seguire un corso di disegno meccanico perché poteva servire ai ragazzi. Probabilmente era una scusa da parte sua perché voleva tenere ancora lì i ragazzi per poterli formare il più possibile. Chissà se questo le famiglie l'avevano capito o sospettato. La notizia della malattia gliela portai io. Telefonai al fratello che mi diede la risposta di un'analisi che diceva: linfogranuloma, cancro quindi, che lui si è portato dietro per sette anni. Sapeva benissimo che doveva morire entro un certo tempo. Se però non fosse stato malato e non fosse morto, il discorso “scuola di Barbiana ” aveva, fatto il suo ciclo”.

Lei pensa che Don Milani avrebbe quindi concluso ugualmente questo ciclo, che non avrebbe continuato questa esperienza di scuola con altri ragazzi?

“Sono quelle combinazioni che si danno nella storia, ne sono convinto. Avrebbe potuto benissimo seguitare la sua attività didattica ospitando della gente, bambini ritardati, ma non con quelli di Barbiana. Inoltre le famiglie del posto cominciavano a mordere il freno, ad essere impazienti, perché gli avevano già dato abbastanza credito”.
Infatti pur avendo il desiderio di emigrare, erano state trattenute anche dal desiderio che questi figlioli riuscissero a prendere il famoso pezzo di carta.

Quando ha conosciuto Don Milani?


“L'ho conosciuto verso il '51, nel periodo di Calenzano, lì mi dette nell'occhio, mi scombussolò tutte quante le categorie. Aveva, un modo liberissimo di parlare e di esprimersi, del gergo proprio del prete non c'era assolutamente nulla. Mi colpì anche questa spudoratezza nell'andare dritto, di non avere mai delle reticenze, come diceva lui scherzosamente “per la ditta”. Diceva “pane al pane”, sia che si parlasse di comunisti, o anticlericali, ecc. . Aveva il culto del vero, dove vero per lui era il Dio. Qui siamo di fronte a un credente, tutto d'un blocco. Non è possibile pensare di togliere un piccolo spicchio, di fare una piccola colonia a sé in questo “insieme” di un uomo di vastissima cultura, bravissimo pedagogo. O tutto o niente, anche perché è il suo carattere che lo esige”.

Per lei, come sacerdote cosa è stato Don Milani per la Chiesa? Una goccia o ha lasciato una impronta che ha avuto delle influenze successive anche in altre persone?

“Se uno volesse dire di vistoso, di sottolineato, nella cosiddetta gerarchia, non si può dire che abbia lasciato qualcosa. Sembra che qualcuno abbia tirato un sospiro di sollievo quando è avvenuto “il lieto evento”. Chi governa fisicamente la Chiesa non ci ha capito nulla. Io sono convinto che se va dal card. Florit gli fa due o tre domande, se ne rende subito conto. Quindi si spiega come mai tutti i circoli, ARCI, ACLI, hanno tenuto delle conferenze, delle illustrazioni, degli incontri-dibattito su Don Milani (questo specialmente nel decennale della morte), e invece all'interno di quella “associazione” della Chiesa che si chiama diocesi (compresi quindi Vescovo, preti) non è mai stata fatta parola, proprio come se fosse stata una vergogna in famiglia. Ecco, io di questo non mi so rendere conto! Le cose contano e le persone non contano. Invece a livello personale sono moltissimi i preti che si sono morse le mani: “Guarda cosa ci si è fatto sfuggire!, “Chi avrebbe creduto”, espressioni di questo tipo e che hanno rimangiato il loro atteggiamento di “cordone sanitario” come se Don Milani fosse un appestato, uno dal quale bisognava ben guardarsi per non diffondere il morbo. Infatti quando scrisse la famosa “lettera ai preti”(1), non ebbe quasi nessuno dalla sua. Certo fu quasi una sfida, perché si sapeva benissimo che qualsiasi adesione avrebbe avuto le sue conseguenze. Io la firmai. Quando però arrivarono le adesioni erano una esiguità, una sciocchezza, l'adesione della massa non ci fu. Quindi a livello personale c'è stato sia un ravvedimento di quelli dell'epoca e poi c'è stato un interessamento anche dei giovani molto vivo e ferreo, anche fuori dell'Italia. C'è un prete spagnolo che è venuto diverse volte, appartiene all'ordine degli Scolopi, e che ha un collegio con ragazzi da recuperare. Egli ha tentato di pilotare, dal punto di vista pedagogico, in questo senso la sua esperienza laggiù. Mi hanno detto che ha scritto un libro che sembra essere il più completo, il più approfondito su Don Milani” (2).

Lei come vedeva Don Milani, non tanto da prete a prete, quanto da uomo a uomo?

“E' questo il fatto: il prete come etichetta, con certe maniere e certi modi di esprimersi, sparisce in lui. Egli diceva parolacce, non a iosa, come vengono dette stupidamente oggi, ma al momento opportuno le diceva. In lui c'è una statura, una fibra, una tempra, una forza di volontà, di carattere e anche un bagaglio di doti naturali e culturali enorme. Proveniva da una famiglia di cervelloni. Diceva: A giocare a “tresette” o a fare la raccolta di figurine?”, pigliava la bicicletta, partiva e andava in Francia o Olanda, solo”.

Quindi la famiglia, oltre che ricca, era aperta. Questo si rispecchia nel suo desiderio di voler lanciare i suoi ragazzi verso l'estero.

“Certamente, li teneva sotto una ferrea disciplina sempre perché loro potessero disporre di una maggiore autonomia, una volta lanciati in Germania o in Francia, in Algeria o in Inghilterra. Da qui l'importanza, data allo studio delle lingue. Come uomo, anche se non fosse stato prete, avrebbe rappresentato una cosa originale, una novità in qualsiasi ramo e in qualsiasi campo. Basta pensare alla pittura. Io penso che abbia seguitato a piangere dietro ai suoi attrezzi, abbandonati per amore di fede cristiana, come si sa aveva già aperto uno studio a Milano, che ci abbia "uggiolato" sempre dietro. Si notava questa sua passione: quando si camminava per la campagna a Barbiana faceva, notare i vari tipi di verde, il tramonto. Non poteva farne a meno. E questo lo dicono anche i suoi compagni. Se avesse dato corso a quella passione avrebbe sicuramente fatto qualcosa di originale. Egli stava nella veste di prete con tutta la sua misura di uomo completo, maturo, divezzato, senza complessi. Non ha rinunciato assolutamente a nulla di quello che, in senso buono, significa essere uomo, rifiutando ogni “moina”, andando sempre al nocciolo della cosa, con quella furia maledetta che si portava dietro. Non dico sempre, ma aveva una fretta tremenda addosso. Questo non vuol dire che non si dedicasse alle cose che più gli piacevano. Era goloso di pesce e io glielo portavo spesso. Non ci teneva a fare l'austero. Certo aveva i suoi difetti, come l'irruenza, che fra l'altro confessava apertamente e sistematicamente e di cui quindi era cosciente. Non era come certi giornali lo rappresentavano, per esempio “Lo Specchio”.
A proposito di Don Milani e il tempo, in un passo di Esperienze pastorali faceva un discorso del tipo: “Datemi un popolo in mano per venti anni e io ve lo convertirò”. Quando scomparve, riguardai questo e vidi che dall'anno in cui egli faceva questo discorso all'anno in cui venne la morte erano passati precisamente venti anni. Anche per Lettera a una Professoressa, di cui fece appena in tempo a vedere le prime recensioni, si nota la corsa e la consapevolezza dei limiti di tempo che aveva a disposizione. Egli si vergognava come un cane di appartenere alla categoria sociale alla quale apparteneva, che campava alle spalle degli altri, quando si accorse che la sua istruzione, la sua cultura vegetava sul sudore e sull'analfabetismo dei contadini. Egli, anche come classe di appartenenza quindi, si sentiva in colpa e indebitato verso questa povera gente, composta, a Barbiana, da contadini, operai agricoli, boscaioli. Egli era quindi consapevole che la sua cultura era costata la “non-cultura” di altri che avevano lo stesso diritto e, magari, le stesse capacità. Anche se lui non aveva perpetrato questo processo, siccome ne traeva vantaggio, che è poi quello di essere colti, se ne vergognava come un cane. L'unico modo che vedeva per riparare in qualche maniera a questo male era quello di restituire la cultura, ai figli di questa povera gente. Certo, questa si arrabbiava per le troppe ore e per il troppo tempo che i loro figlioli dedicavano allo studio nella sua scuola anziché, per esempio alla guardia delle pecore.
Sentiva il debito molto pesante ed è per questo che non si permetteva di parlare inutilmente, neanche le barzellette, a meno che non avessero scopo educativo. “La perdita del tempo è un delitto egli diceva, se si perde un quarto di ora, siccome la vita è fatta di tutti i quarti d'ora dalla nascita alla morte, si butta un pezzo della propria vita e disprezzare la vita è un peccato orribile contro Dio”. Quindi bisogna contare il tempo fino all'ultima stilla. E' probabile che questa concezione Don Milani l'avesse anche prima di aderire alla fede cristiana. Però una volta entrato negli insegnamenti della Bibbia, questa diventò quasi esasperata, pur avendo momenti di ilarità, come prendersi in giro con i ragazzi. L'uso del tempo era per sé e per i ragazzi. Quando, infatti, lui non poteva essere presente a Barbiana, perché andava dalla madre o all'ospedale per analisi, lasciava ad ognuno dei ragazzi il programma da svolgere durante la sua assenza”.

Questi ragazzi, che ora sono tutti adulti e maturi si ritrovano mai fra di loro?

“ Ci fu un tentativo quasi subito dopo la morte di Don Milani di ritrovarsi, però fallì. Questo sembra da attribuirsi a Michele Gesualdi, perché temeva che si formasse un circolino privato. Ognuno deve scegliersi il proprio campo di azione, vi si deve tuffare realizzando lì i propri ideali. E' prevalsa la concezione che ciascuno deve colorire con la fisionomia di un ambiente diverso, quella esperienza e quell'idea. Allora c'è chi si è dedicato al sindacato chi alla scuola”.


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Note

1. Vedi Lettera ai Sacerdoti della diocesi fiorentina scritta da Lorenzo Milani e Bruno Borghi - Percorso: Lettera ai Giudici.
2. Si riferisce a Padre José Luis Corzo Toral.