Barbiana-Scuola di Barbiana

Barbiana

  

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CATTEDRA DELLA POVERTÀ







barbiana_vista2Nel dicembre del ' 54 Don Lorenzo Milani viene nominato Priore della chiesa di S. Andrea a Barbiana, una piccolissima parrocchia sul monte Giovi, nel territorio del comune di Vicchio del Mugello. La chiesa del '300 e la canonica, situate a 475 metri di altitudine sopra il vasto paesaggio della valle della Sieve, erano, e lo sono ancora, circondate da poche case e dal minuscolo cimitero. Racconta Gina Carotti, amica e popolana: "Barbiana era una parrocchia di montagna con pochi abitanti, sprovvista di luce e di acqua. Di sera e nel mese di dicembre che faceva buio presto, era piuttosto triste ". Era una località irraggiungibile da automezzi perché non vi era ancora la strada ed era abitata solo da cento contadini che resistevano all'esodo verso la città. Da tempo, il vecchio parroco don Mugnaini aveva annunciato la chiusura.

 

 

 

 

 

IL GIORNO DELL'ARRIVO


 

Il_giorno_dell'arrivo_a_BarbianaPer la curia fiorentina, isolare don Lorenzo Milani era la giusta punizione da dare a un sacerdote che non amava le processioni, le feste, che privilegiava i più poveri e che aveva creato una scuola dove erano ammessi gli operai comunisti. Un uomo che vedeva nel consumismo, e nelle sue attrattive alienanti, la causa dell'allontanamento del povero dalla Chiesa e dai valori cristiani. In questo modo il vescovo pensò di riconciliarsi con i preti e i cattolici benpensanti e anticomunisti di Calenzano, che erano andati da lui a lamentarsi. Morto don Pugi, il vecchio parroco, bisognava mandarlo via da San Donato. E fu così che don Lorenzo Milani giunse a Barbiana quel mercoledì 8 dicembre 1954: "... un'esperienza così intima e sofferta che non è tutta traducibile in parole, qualcosa che parla alla coscienza prima ancora che all'intelligenza". Quei 7 km. tagliavano fuori dal mondo! Le lettere bisognava andarle a prendere a Vicchio. Ancora oggi, la stanza e il pergolato, nella quale e sotto il quale si svolgevano le lezioni, restano ancora là. A testimonianza di questo prete, posto dalla Provvidenza in un angolo sperduto. L'unico che potesse accoglierlo. Don-Milani-18-dicembre-2017-cop-1024x393

Il giorno dopo il suo arrivo, aveva raggruppato i ragazzi delle famiglie attorno a sé e in una scuola. Li liberò subito dalla passività e li rese responsabili. In questa scelta si fonderanno la sua pedagogia e la sua pastorale. L'impatto con la cultura contadina e l'analfabetismo di noi montanari maturerà e radicalizzerà in lui la necessità di dare più centralità alla scuola. Ed è proprio qui, nell'isolamento più totale, che emerge la figura del maestro

Dopo l'esperienza a san Donato capisce che non si può amare, concretamente, che un numero limitato di creature. Per pochi ragazzi, semianalfabeti, figli di pecorai e contadini, oppure orfani, apre una scuola che inizia all'otto del mattino e termina a buio. Una scuola che non conosce vacanze e che rifiuta le metodologie e le tecniche d'insegnamento nozionistico e trasmissivo. "Lettera a una professoressa" è il risultato di un anno di attività a Barbiana, con un maestro ormai nel pieno della sua maturità. Il maestro Lorenzo Milani trasforma il giornale in materia scolastica. Trasforma, in ricerca e produzione di materiale didattico, il lavoro d'équipe, da lui diretto, svolto con i ragazzi, gli abitanti e i numerosi visitatori. Una grande rivoluzione culturale, didattica e pedagogica che rifiuta l'indifferenza, la passività negativa e motiva fortemente l'allievo. Un libro, che pur essendo all'interno della premessa di quel grande movimento trasformativo quale fu il '68 italiano, andava oltre e avrà validità fino a che esisteranno sacche di povertà e selezione. Un libro che crede nell'evolversi della storia e obbliga l'educatore a usare un metodo formativo aderendo al mondo dell'allievo. Il maestro "dà al ragazzo tutto quello che crede, ama, spera. Il ragazzo crescendo ci aggiunge qualcosa e così l'umanità va avanti ".

 

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Nel 1965 è portato in tribunale, accusato per apologia di reato, per la "lettera ai cappellani militari". La sua autodifesa, pensata e scritta con gli allievi e gli amici, la "lettera ai giudici", sono tra le pagine più belle della sua letteratura. Don Lorenzo Milani fu un educatore esigentissimo. L'esperienza di Barbiana, non è ripetibile, solo se si considera il fatto che più che una scuola, lui aveva creato una comunità. Francuccio direbbe: una famiglia. Povero tra i poveri, tenne gli occhi sgranati su una realtà, all'interno della quale, visse con Tombacoerenza feroce. Tutti i suoi scritti, nel periodo in cui abitò Barbiana, nacquero per motivi pedagogici.
Nel dicembre del '60 si manifestano i sintomi del linfogranuloma e della leucemia. Muore in casa della madre, il suo cerchio si chiude il 26 giugno 1967, all'età di 44 anni.

 







 


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PEDAGOGIA DELL'ADERENZA

 

A Barbiana i ragazzi siederanno attorno ai tavoli. Saranno eliminati pulpiti e cattedre. La scuola, nata il giorno stesso dell’arrivo del Priore, prenderà lentamente una forma sempre più circolare. In uno spirito cooperativo e di ricerca l’intera Comunità lavorerà su progetti d’utilità comune, quali la formazione, l’acquedotto, la strada, i laboratori. Le prime lezioni del Priore consentiranno agli adulti del nuovo popolo di prendere la patente della moto e di liberarsi dall’isolamento. Solo dopo qualche tempo istituirà un doposcuola di supporto alla scuola elementare di Padulivo, aggregato di case a 1 km dalla chiesa. Era una pluriclasse con un’unica insegnante per tutti i bambini. Più tardi, dopo la stesura di Esperienze Pastorali, fonderà una scuola d’avviamento professionale, a tempo pieno, che con la riforma del ’62 diventerà Media Unificata. Le lezioni inizieranno la mattina all’otto e termineranno alle 20. Non era raro che proseguissero anche il dopocena. Di certo, nel periodo in cui fu scritta e pensata Lettera a una professoressa, si trattava di una scuola superiore. La freschezza intellettuale e la ricchezza culturale del maestro sapranno aderire alle necessità e alle risorse umane e materiali già presenti su quel territorio. I rumori erano allegri e la scuola divertente, si deduce anche dai racconti che fa alla madre: “Oggi abbiamo costruito una grande giara di legno e tela di sacco e stasera andiamo alle Casacce col trattore a prendere un carico di legname da muratori gentilmente offerto dal mio intimo amico Mayer per costruire il palcoscenico. Lo montiamo sull’aia e l’Ammannati tornerà domenica con la macchina da presa per riprendere a colori la Giara più realisticamente sceneggiata che sia mai stata fatta. Gli attori sono gli allievi di don Palombo ”.

In realtà la scuola ebbe un’evoluzione propria che non teneva conto di nessuna denominazione istituzionale. Era soltanto tesa a formare l’uomo e lo faceva organizzando vere e proprie lezioni di vita. Il 13 agosto del ’59 scrive, sempre alla madre, a proposito di un pastore valdese di Torre Pelice, Roberto Nisbet che era stato in visita a Barbiana il giorno precedente:“Gli ho fatto fare scuola dalla mattina alla sera e era commosso e entusiasta”. La sera dello stesso giorno riprendendo la lettera interrotta, stanco morto per le nuove visite e lezioni: “Stamani due preti a cui ho fatto far lezioni di canto. E stasera un giovane fotografo che ci ha insegnato lo sviluppo e la stampa. Abbiamo finito in questo momento e sono già le 9, tutti i ragazzi han provato a fotografare e poi sviluppare e fissare le loro foto. Tutti contentissimi naturalmente …”. In un’altra lettera sempre alla madre dirà: “Ti ho detto che abbiamo ammazzato una vipera qui sulla strada nel fosso dei tigli ? Là dove stiamo a scuola d’estate. Prima di ammazzarla abbiamo avuto il tempo di studiarla tutti ben bene tenendola ferma sotto un bastone. Abbiamo confrontato tutti i libri che abbiamo e non c’è dubbio. E’ uno degli effetti dello spopolamento …”.

In questo modo, il Priore esprimeva un amore d’intelligenza rara che diventava coinvolgimento totale tra il maestro e l’allievo, tra il prete e il suo popolo. Tra l’uomo e i suoi amici. Un “vero e proprio patto di fiducia-alleanza, come ricorda Aldo Bozzolini, uno dei primi allievi, tra lui e le famiglie ”. Le quali non lo abbandoneranno mai. I babbi diventeranno dei pendolari, preferiranno allungare la loro giornata di fatiche pur di lasciare i figlioli alla scuola del prete. A cena i ragazzi raccontavano tutto ai loro genitori. Il popolo di Barbiana sparirà pochi giorni dopo la sua morte. Abbiamo chiamato questo modo d’insegnare e apprendere direttamente dalla realtà: PEDAGOGIA DELL'ADERENZA. Partendo dall’ambiente in cui vive, l'allievo organizza e costruisce la propria conoscenza. Il docente, nel costruire i significati, struttura, con il discente, un ambiente d'apprendimento di partenza. Dal particolare all'universale. Dalla patente per l'uso della moto alla Scuola di Servizio Sociale: dove furono formati prevalentemente sindacalisti, operatori sociali e insegnanti. Allievo e maestro pattuiscono le regole comuni. Mi ci volle un anno per comprendere ed accettare di restare.

 

METODOLOGIE DIDATTICHE

 

E’ vero, quando parliamo di metodologie didattiche oggi usiamo un linguaggio molto raffinato: didattica per obiettivi, ricerca/azione, cooperative learning, didattica per concetti, per competenze, sfondo integratore, ossia l'involucro, il contenitore che determina l'unità del percorso educativo, la percezione dei nessi, il senso della continuità che collega le molte attività didattiche che altrimenti resterebbero disperse e frantumate. Per Lorenzo Milani tale sfondo era sia relazionale sia istituzionale, consonante con la sua metodologia, perché legato nei suoi intenti al circostante la sua scuola. Pur essendo cosciente che non è la tecnica l’anima dell’insegnamento, ci spiegherà che l’arte dello scrivere si può apprendere ed insegnare. Nella lettera alla signora Lovato scritta il 16 marzo 1966, Lorenzo difende il suo metodo. Rifiuta, nella scrittura, qualsiasi segno di personalizzazione. Prima di continuare proviamo ad immedesimarci in quel luogo e tempo, se vogliamo capire lo spirito con il quale praticava pastorale e insegnamento. Barbiana non è più isolata. Lo scalpore provocato dal processo, in seguito all'accusa di apologia di reato che lo aveva condotto in tribunale per difendersi, aveva generato attorno a lui molta solidarietà. Ma il suo scopo nello scrivere con i ragazzi era un altro: “Cara signora, da qualche mese in qua la posta che riceviamo è tanta che facciamo appena in tempo a leggerla. Io poi sono malato e da molto tempo non prendo in mano la penna. Un ragazzo o due a turno sbrigano tutta la corrispondenza, mi sottopongono solo le lettere che giudicano più private. Così accade che rispondo a lei. Mi ricordo che nel '58 quando uscì il mio libro “Esperienze pastorali” (non ne ho scritti altri, quello sull'Obiezione della Locusta è una pubblicazione illegale. Ho diffidato l'editore dal seguitare a venderla, ma quell'onesto farabutto non se n'è dato per inteso) mi scrisse e poi venne a trovarmi un anziano signor Lovato vegetariano e veronese, se non sbaglio leggermente zoppo. Era un uomo simpaticissimo e i ragazzi più grandi serbano ancora il ricordo di alcune sue curiose motivazioni sul vegetarianesimo. Cos'è di lei. Me lo saluti e gli dia una copia dell'edizione mia che le accludo e che è l'unica che approviamo. Rispondo ora a lei. Grazie della sua lettera. Spero di vederla un giorno quassù. Sto disfacendo la scuola. Ho mandato i più grandi a lavorare. Non prendo più ragazzi nuovi. Ho ancora una decina di ragazzi a cui faccio scuola qui in camera. Oppure quando son stanco si fanno scuola l'un l'altro nell'aula che comunica con questa camera. Allora la mia attività pedagogica consiste solo in qualche urlaccio per tenerli buoni. Ho una leucemia e non voglio morire stupidamente sulla breccia con ragazzi immaturi mezzo educati e mezzo no. Così sto organizzando da un anno un ragionevole e riposante tramonto. Mi godo i figlioli riusciti e i loro bambini. Ricevo con commozione i prodighi che tornano. Tengo lontani i prodighi che non tornano. Insomma vivo come un nonno amato e mi godo questa vita. Abbiamo scritto la lettera ai giudici come un'opera d'arte. Purtroppo nelle centinaia di lettere che ci arrivano dall'Italia e dall'estero ci accorgiamo che pochissimi se ne sono accorti. Tutti pensano che abbiamo delle bellissime idee. Pochi, forse due o tre persone in tutto, si sono accorti che per schiarire le idee così a noi stessi e agli altri bisogna mettersi a lavorare tutti insieme per mesi su poche pagine. Allora tutti sapranno scrivere come noi e non ci sarà più bisogno di rivolgersi a noi con venerazione come se fossimo toccati dalla grazia. Chiunque se vuole può avere la grazia di misurare le parole, riordinarle, eliminare le ripetizioni, le contraddizioni, le cose inutili, scegliere il vocabolo più vero, più logico, più efficace, rifiutare ogni considerazione di tatto, di interesse, di educazione borghese, di convenienze, chieder consiglio a molta gente (sull'efficacia non sulla convenienza). Alla fine la cosa diventa chiara per chi la scrive e per chi la legge. La lettera ai giudici è stato un dono che abbiamo ricevuto e abbiamo fatto. Prima di scriverla né io né i ragazzi sapevamo quelle cose. Le intuivamo né più né meno di quello che lei ha detto di se stessa: “Ero arrivata a capire da sola molte delle cose....” Mi scusi, mi son distratto, le stavo dando una lezione dell'arte dello scrivere che lei non mi aveva chiesto. Ma è che l'arte dello scrivere è la religione. Il desiderio d'esprimere il nostro pensiero e di capire il pensiero altrui è l'amore. E il tentativo di esprimere le verità che solo s'intuiscono le fa trovare a noi e agli altri. Per cui esser maestro, esser sacerdote, essere cristiano, essere artista e essere amante e essere amato sono in pratica la stessa cosa”. Tale pratica c’invita a capire alla luce dei processi interpretativi implicati nel fare significato. “Non tener conto delle limitazioni biologiche del funzionamento umano è peccare di superbia. Sottovalutare il potere della cultura di plasmare la mente umana e rinunciare ad assumere il controllo di questo potere è commettere suicidio morale ”. Un suicidio che è ormai sotto i nostri occhi e che era prevedibile. gruppo1E’ a Barbiana che il profilo dell’educatore si trasformerà in: regista e portatore di strumenti. Per questo motivo la sua esperienza anticipatrice è conducibile, con un po' di “provocazione”, alla scuola di domani, ossia a una scuola “post-attiva”.

 

IL LABORATORIO MASSIMO DELLA SCUOLA DI BARBIANA

 

Siamo così giunti ad una delle questioni principali che stanno all’origine del nostro lavoro: il valore degli strumenti per don Milani. Dei quali la parola è il primo. Oggi l'apprendimento è raggiungibile solo per mezzo di un'idea: il laboratorio massimo. A Barbiana non esisteva il libro di testo. Nel nostro centro redazionale, il momento e il luogo della la fruizione del libro, lo strumento didattico, coincideva spesso con la produzione dello stesso. C'era per ciò una totale integrazione tra scuola e lavoro. Il supporto concreto alla didattica erano i vocabolari. Li avevamo tutti. Un altro supporto erano la Treccani e la biblioteca che a ferro di cavallo circondava la stanza principale della canonica.

Era comune interrompere la lezione per correre dietro alle origini, alle etimologie delle parole più astruse e sconosciute. La realtà, introdotta principalmente dal giornale e dalla corrispondenza, rappresentava la base e il fondamento d’ogni disciplina. Il materiale didattico prodotto si sviluppava sempre per argomenti. Lo schema storico non era di tipo consequenziale, ma si costruiva spesso andando a ritroso. Cercando i significati e le origini di un termine casualmente letto o citato. Mettendo in risalto gli aspetti che più ci avevano impressionato, tingevamo, per esempio, di colore nero la cartina dell'Europa ad indicare le invasioni della Germania nazista e dell'Italia fascista. Così la Storia si legava alla Geografia in un unico schema spazio temporale. Sui tavoli della scuola costruivamo le nostre cartine geografiche, accompagnate da schede indicative. Ognuna illustrava una caratteristica, linguistica, economica o politica. Così la monografia rappresentata consentiva, con un solo sguardo, di individuare i momenti chiave dei processi di decolonizzazione dell’Africa. Due alberi disegnati su un supporto di compensato, uno grande e uno piccolo, rappresentavano rispettivamente e in scala, la tassazione indiretta e diretta. Esprimevano in un colpo d'occhio l'ingiustizia sociale. “Uno strumento, costruito a proposito nei nostri laboratori, ci racconta sempre Aldo, con dei tubi ricavati dalle colate delle docce, consentirà di fotografare e sviluppare, in negativo su carta fotografica in bianco e nero, le fasi di un’eclissi di sole. Ci divertivamo a misurare le distanze tra il campanile di San Martino e la stazione di Vicchio con un teodolite che avevamo costruito noi, uguale a quello con il quale i geometri rilevano i punti cospicui per costruire le strade oppure fare rilevazioni topografiche ”. Anche le lingue, imparate direttamente all'estero, erano insegnate in lingua madre, anche ascoltando le canzoni dei cantautori stranieri: Bob Dylan e Georges Brassens, con vecchi registratori a nastro e tanti dischi. Chi arrivava presto la mattina era solito trovare il Priore che preparava i materiali oppure registrava dalla radio le lezioni d’inglese, francese, tedesco o spagnolo. Altri strumenti importanti erano il telescopio, il laboratorio fotografico, l'officina e la falegnameria. Nel 1965, insieme all'elettricità, arriveranno le macchine calcolatrici dell'Olivetti e il cineproiettore portato da mio cognato Luigi Lattuada. Oggi, con le nuove tecnologie della comunicazione, la scuola non può che dare centralità ad un metodo che pone nella “cassetta degli attrezzi” la Stazione Multimediale, con tutte le periferiche e collegata in rete telematica. Oggi rischiamo di passare dall’astrattismo di ieri all’incapacità di trasmettere le competenze necessarie per usare i nuovi strumenti della comunicazione, i quali da soli integrano la scuola alla vita e al mondo del lavoro.

Alla scuola di Barbiana noi, figli di contadini, trovavamo la nostra identità e gli strumenti che ci rendevano capaci di esprimere la nostra cultura. Eravamo protagonisti attivi: Self help e tutoraggio. In tale intelaiatura, l'educatore si trasformava da trasmettitore delle conoscenze in costruttore di schemi logici e di contesti flessibili, un intreccio d’idee e di fatti idonei a produrre apprendimento. Il nostro maestro, privilegiando l’approccio globale, non rispetterà gli orari oppure la progressione lineare delle singole discipline. Non disgiungerà mai la cultura umanistica da quella scientifica. Quando il professor Agostino Ammannati veniva a trovarci il Priore gli cedeva volentieri il posto per insegnare i Promessi sposi e la Divina Commedia, dimostrando umiltà e rispetto. A Barbiana che era un vero e proprio centro editoriale, il tempo e il luogo della fruizione dello strumento didattico coincidevano con il momento e il luogo della produzione. Gli strumenti che mancavano si potevano inventare come racconta lui stesso in una lettera: “Abbiamo fatto fare un microfilm della partitura dell’allegretto della VII (sinfonia di Ludwig van Beethoven) e lo proiettiamo sullo schermo nel tempo che gira il disco. S’è fatto e rifatto tante volte quanto è bastato al più duro dei ragazzi a imparare a seguirla tutta colla canna voce per voce. Insomma una soddisfazione immensa …”.

Andiamo per gradi e vediamo come da un dettaglio, un articolo di giornale, sia stato possibile produrre la Lettera ai giudici. In questo caso non c’è stato un vero e proprio uso del Notes e dei fogliolini. Non c’è stato il tempo per una vera e propria Scrittura collettiva. Eppure la stesura di questa lettera rappresenta il periodo più ricco della scuola. Riassumo sinteticamente le fasi dell'itinerario di quella regia e lavoro di gruppo il cui input fu dato dall'articolo della Nazione, che mi pare fosse stato portato dall’Ammannati e da Ferrero Facchini, amici cari a Lorenzo. Siamo nel ’65. Tutti i pomeriggi, subito dopo mangiato, leggevamo la corrispondenza e il giornale. In quell’occasione il comunicato dei cappellani fu messo in evidenza. Tutta la rete di relazioni che ruotava attorno alla Comunità di Barbiana fu mobilitata. Il Priore scrive quasi di getto la Lettera ai Cappellani Militari. Lo scritto letto e riletto è sottoposto a revisione. Molte sono le matrici battute a macchina dai ragazzi e ciclostilate mentre la forbice e la colla scomponevano e ricomponevano i paragrafi cercando di trovare logiche d’aggregazione dei contenuti. Nascevano i capitoli che si collocavano su di uno schema che cambiava continuamente. Giuristi, come l'amico Giancarlo Melli, furono costretti a riflettere ignorando il rischio. Bisognava cercare verità oggettive. La legge doveva cambiare. La lettera viene incriminata. La lettura collettiva della denuncia e degli articoli dei giornali che l'accompagnavano diventò motivo di grandi discussioni. La corrispondenza di quei giorni è ricca di elementi per capire il nostro laboratorio e l’intensificarsi delle relazioni, diventate ormai internazionali. Anche Erich Fromm si interesserà a don Milani.

Si decide la difesa. Il Priore elabora uno schema di partenza. Produce subito un percorso di ricerca sulla storia, a partire dalle guerre del risorgimento italiano fino a giungere all’unificazione. Lo fa principalmente mettendo a confronto testi come il Saitta e Mck Smith che furono letti in modo sinottico. Il primo ci viene presentato come la voce ufficiale della scuola di stato e subito se ne deduce il punto di vista. Il secondo è libero e spregiudicato. Lo si capisce subito, perché don Lorenzo lo predilige anche se ci avverte che è un inglese. Più affidabile per alcuni motivi, inaffidabile per altri. Affidabilissimo per il giudizio dato su Garibaldi o Nino Bixio, sterminatore di contadini. Interi concetti vengono estrapolati, discussi e sviluppati, in interminabili giornate di lavoro che coinvolgeranno degli esperti esterni: gli storici. Anche i contadini che hanno fatto la guerra montano in cattedra. Sono proprio loro a valorizzare il punto di vista di chi è stato manipolato e a svalutare il pensiero comune incapace di critica. Con l'intero popolo di Barbiana, che comprendeva anche i tanti amici che per abitudine salivano a trovarci, si verifica la stesura del testo, a tutti i livelli, per renderlo comprensibile anche a chi non aveva una cultura alta. Per mesi la scuola sembrava svolgere solo una disciplina: la storia. Dentro tale metodo, invece, si ricomponevano tutte le materie. Il prodotto finito era sempre una lettera: un tema d’italiano che si legava automaticamente al rapporto fra chi scrive e chi legge. A testo ultimato fu importante coinvolgere nel dibattito i centri editoriali esterni: come i giornali e le riviste. Analizzare insieme i comportamenti dei Media e il loro uso fu una cosa entusiasmante. Il Priore a volte anticipava i risultati di un editoriale o metteva a fuoco l'importanza di un amico come Mario Cartoni che, pur agendo all'interno di un quotidiano come la Nazione, riusciva a tenere il filo del discorso in maniera più oggettiva di altri.

Per capire più nel dettaglio questa metodologia e viverla attraverso un’esperienza anche didattica, ossia non mediata da influenze esterne o di comodo, v’invito a rileggere, se l'avete dimenticata, la corrispondenza tra Barbiana e Mario Lodi. In tali lettere si parla di vocabolario attivo: le parole usate. E di quello passivo: le parole conosciute. La scrittura collettiva, dice il Priore, attraverso il dialogo con il maestro e l'interazione tra gli allievi, consente di trasferire le idee, dal livello dell'orecchio, a quello della bocca e della penna, arricchendo in modo esponenziale il linguaggio personale e collettivo. I titoli al bordo d'ogni paragrafo delle scritture collettive non sono altro che piccole mappe concettuali, la sintesi dei famosi fogliolini, l'idea di partenza alla quale avevamo finalmente dato un titolo.

Con la Lettera a una professoressa il metodo si perfeziona. Infatti, a pagina 126, proponiamo una vera e propria tecnica di apprendimento delle regole dello scrivere: “Noi dunque si fa così: Per prima cosa ognuno tiene in tasca un notes. Ogni volta che gli viene un'idea ne prende appunto. Ogni idea su un foglietto separato e scritto da una parte sola. Un giorno si mettono insieme tutti i foglietti su un grande tavolo. Si passano a uno a uno per scartare i doppioni. Poi si riuniscono i foglietti imparentati in grandi monti e son capitoli. Ogni capitolo si divide in monticini e son paragrafi. Ora si prova a dare un nome a ogni paragrafo. Se non si riesce vuol dire che non contiene nulla o che contiene troppe cose. Qualche paragrafo sparisce. Qualcuno diventa due. Coi nomi dei paragrafi si discute l'ordine logico finché nasce uno schema. Con lo schema si riordinano i monticini. Si prende il primo monticino, si stendono sul tavolo i suoi foglietti e se ne trova l'ordine. Ora si butta giù il testo come viene viene. Si ciclostila per averlo davanti tutti eguale. Poi forbici, colla e matite colorate. Si butta tutto all'aria. Si aggiungono foglietti nuovi. Si ciclostila un'altra volta. Comincia la gara a chi scopre parole da levare, aggettivi di troppo, ripetizioni, bugie, parole difficili, frasi troppo lunghe, due concetti in una frase sola. Si chiama un estraneo dopo l'altro. Si bada che non siano stati troppo a scuola. Gli si fa leggere a alta voce. Si guarda se hanno inteso quello che volevamo dire. Si accettano i loro consigli purché siano per la chiarezza. Si rifiutano i consigli di prudenza. Dopo che s'è fatta tutta questa fatica, seguendo regole che valgono per tutti, si trova sempre l'intellettuale cretino che sentenzia: “Questa lettera ha uno stile personalissimo”. Dite piuttosto che non sapete che cosa è l'arte. L'arte è il contrario di pigrizia. Anche lei, non dica che le mancano le ore. Basta uno scritto solo in tutto l'anno, ma fatto tutti insieme”. È importante accettare e applicare quest’ultima considerazione che ci costringe alla riduzione del tanto a favore del poco. La motivazione e la qualità degli argomenti, è indispensabile per aprire un varco al modo d’insegnare di Lorenzo. Il fatto che la tecnica di scrittura abbia consentito al Priore un'autodifesa e che lui abbia fortemente influenzato i contenuti di tale lavoro di gruppo (insegnanti, ragazzi, visitatori, popolo, esperti, ecc.) non significa che ciò possa diminuire il valore del metodo da lui adottato e insegnato.

 

LORENZO MILANI
L’UOMO, IL MAESTRO E IL PRETE



 

con_allievoHo cercato di dimostrare che il Progetto educativo del Priore di Barbiana dà priorità alla Lingua, ma produce anche metodi e tecniche raffinate. Le abbiamo estrapolate. Analizzate insieme. Evidenziare solo il primo Milani di "esperienze pastorali" quando scrive: " non chiedetemi la tecnica, ma piuttosto come deve essere l'educatore per poter fare scuola", per quanto questo concetto resti ancora valido, suona sempre più mistificante. Noi del gruppo storico della lettera rifiutiamo l'interpretazione di chi vede solo nel prete di San Donato la rappresentazione vera del vissuto del nostro Maestro. Secondo tali interpretazioni l'esilio e la malattia inaridiranno il suo apostolato. Per noi, al contrario, rappresentano due cardini, punti di svolta capaci di produrre percorsi e approfondimenti utili ad una più articolata comprensione del pensiero di un uomo che è stato capace di valorizzare il dubbio, di vivere e superare il proprio tempo. I suoi “ceffoni” bruciano ancora. Ci fanno vergognare. Ci fanno riconoscere complici, deboli e colpevoli dei processi degenerativi, della vacuità delle idee e della perdita di valori di questa società. Mettere allo stesso livello, dal punto di vista didattico sia ben inteso, l'esperienza di San Donato, rivolta solo agli adulti e saltuaria, con quella di Barbiana, dove Lorenzo raggiungerà una maturità educativa, è semplicemente assurdo. Lorenzo, avuta la grazia o la disgrazia d'innamorarsi personalmente di poche decine di montanari che affogavano in problemi d’ordine sociale ed economico, inizia il suo apostolato con la grammatica in mano. La molla che lo muove è l'amore. Affermiamo, però, che il nostro maestro, per quanto esperto giocoliere, non è stato uno spontaneista. La suggestiva teoria del “buon selvaggio” è stata da lui definita ipocrita, prima ancora che sbagliata. La sua strategia si basava sui bisogni veri della gente, le influenze ambientali e le motivazioni al sapere.

Barbiana_gruppo_classe_Primi_allieviPurtroppo, Gianni, il ragazzo sempre bocciato della “Lettera a una professoressa”, è finito per diventare ciò che il Priore temeva: un tragico burattino. Solo più elegante nei suoi vestiti di marca e alla moda. Come dice Giorgio Pecorini, nel suo bel libro: “Don Milani. Chi era costui?”, Gianni non ha più le pezze al culo, non sta più con il cappello in mano davanti al farmacista. Ride davanti alla TV che trasmette dai luoghi delle stragi e della distruzione. Una TV che si propone ad un pubblico che è solo spettatore, assente al dolore. Se Gianni è cambiato, Pierino del dottore si è “in-giannato”, nel senso che assistiamo a un vero e proprio calo di Cultura. Sparito Gianni è sparito anche il signorino! Ecco che oggi, se vogliamo esportare i principi formativi barbianesi dobbiamo inserire nella nostra analisi uno scenario e dei personaggi diversi. Dobbiamo fortemente invertire la logica del permissivismo borghese, ma anche quella degli schematismi ideologici e della frantumazione. Solo in questo modo potremo modificare i dati allarmanti emersi dalle statistiche sulla dispersione e l'abbandono. Ricordiamoci di un'altra provocazione paradossale di Lorenzo, e così forte da fare fremere i tanti asettici e freddi insegnanti, di certa fede sessantottina, quelli che nella realtà hanno solo predicato dalla cattedra senza dare mai la parola: “La scuola per fare cittadini sovrani prima deve essere Monarchica”. Quest’enunciato, così pesante, va interpretato. Come lo abbiamo fatto noi in una discussione accesa e dove fu necessario soccombere. L'insegnante non deve rinunciare al suo ruolo d’esperto, ci diceva Lorenzo, ma deve diventare egli stesso strumento e tramite per creare i presupposti di una democrazia che si struttura solo con regole condivise. “La democrazia non si predica, ma si esercita”, sosteneva. Essere regista significa operare come in architettura e nel teatro. Dove tutte le competenze sono necessarie e indispensabili. Solo così sarà possibile invertire l’orribile e violento classismo di cultura, difeso ormai solo dall'antiquata e famosa professoressa della “lettera”. La quale rinuncia al suo ruolo, quando candidamente dice: “... scrittori si nasce”.

Comunque la testardaggine con cui Lorenzo Milani sostiene in tante lettere l'esistenza di un'arte e una tecnica dello scrivere, ci libera da ogni dubbio sull’esistenza e sull'applicabilità del suo metodo. Per fortuna la nostra convinzione è in buona compagnia. Finite le mistificazioni, il sacerdote di Sant'Andrea a Barbiana diventa finalmente strumento per i Riformisti della scuola che trovano in lui un'identità forte, non certo l'unica, per dignitosamente esprimersi all'interno del progetto educativo europeo e mondiale. Non è il metodo che dobbiamo modificare, ma, nell'applicarlo, sarà necessario individuare strumenti e bisogni nuovi. Non è vero che il progetto di Lorenzo era basato solo sulle qualità personali di chi insegna. Se è vera la frase, rivolta a chi voleva esportare il modello barbianese: “Non resta che spararvi!” è altrettanto vera quell'altra frase: “A Barbiana verranno tutti a imparare il metodo: dall'ultimo bidello al primo ministro ”. A parte i paradossi di cui il linguaggio del nostro maestro è ricco, chi crede nella geniale intuizione della scrittura collettiva, nell'importanza della Comunicazione e dei suoi Strumenti, può anche non spararsi, perché l'esperienza ci ha insegnato che: “si può diventare scrittori ”. Esistono valide tecniche e metodi da importare ed esportare, se vogliamo integrare ed espandere il pensiero di Lorenzo. L'acquisizione del sapere coincide con la ricerca dell’oggettività e richiede un confronto con il mondo circostante, per essere verificata. Una scuola che forma i cittadini, non si può sottrarre al compito di preparare anche alla politica e alla vita sociale: “ … io non sono un sognatore sociale e politico: io sono un educatore di ragazzi vivi, e educo i miei ragazzi vivi a essere buoni figlioli, responsabili delle loro azioni, cittadini sovrani ” Perché abbiamo atteso tanti anni, si domandano e mi chiedono tanti insegnanti, prima d'essere capaci di digerire, sperimentare e trasformare in tecniche e metodi la pratica d'insegnamento di Lorenzo Milani? Pudore? Modestia? Timidezza interiore o fariseismo? Il costruttivismo di Lorenzo è contemporaneo, anche se parallelo, a quello di Bruner e d’altri pensatori che concordano sul fatto che il processo di crescita del soggetto risiede nell'interiorizzare modi di agire, di immaginare e simbolizzare che esistono nella sua cultura. I significati prendono forma nell'incessante interazione allievo - maestro - ambiente. Ciò che ci ha fatto restare alla sua scuola non era quella bontà che potevamo ricevere anche da pessimi insegnanti. Ci ha trattenuto il fascino e il piacere che si provava a stare accanto ad un uomo così intelligente. La bontà, quando è sola, produce persone eroiche o castrate, ma non educatori. L'allievo si rivolge al maestro non perché è cattolico, giudeo o mussulmano oppure, semplicemente, perché è buono. L'allievo si avvicina al maestro per imparare senza perdere la propria identità. Un rapporto concordato su regole comuni.

Quando mi sono rivolto al Priore ho conosciuto il silenzio, ma anche il diritto di parola. Ho avuto subito una cameretta tutta per me, pasti assicurati, lingue, falegnameria, officina, studio fotografico, audiovisivo, libro, quaderno e una comunità educante. Dopo la sua morte, mi sono rivolto al padre spirituale di Lorenzo quando era in Seminario. Don Raffaele Bensi mi ha messo un libro in mano. Ricordo ancora il titolo e l’autore: “Sotto la ruota” di Hermann Hesse. Bisognava comprendere il libro, per andare oltre e comunicare. Un esame che credo di aver superato perché sono riuscito a costruire un rapporto, quello con don Bensi, che mi ha dato tanto, in anni difficili della mia vita. Meno male che nel mio patrimonio genetico c'era un po' d'intelligenza, ma soprattutto a Barbiana avevo acquisito un vocabolario ricco. Questi due insegnamenti sono stati, per me, complementari. Non sarebbero stati così importanti l’uno senza l’altro. E' Lorenzo, a fare da tramite tra il mio vecchio mondo muto e coloro che parlavano troppo. Il comportamento di don Bensi non avrebbe modificato sostanzialmente la struttura della Piramide che troviamo nelle statistiche sulla dispersione di Lettera a una professoressa e che ancora oggi sussiste. La sua era una scuola elitaria, anche se di alti valori. Il Priore, viceversa, avrebbe ridotto gli analfabeti ad un fenomeno marginale. Dobbiamo riconoscere che entrambi erano scevri d'ipocrisia nel trasmettere i valori. I loro, erano sistemi netti e spesso conflittuali, ma tale dialettica elevava il livello culturale. La piramide era una realtà, nemmeno il '68 l'ha modificata. La piramide odierna dopo tante pseudo/riforme, mi riferisco ai bisogni culturali d'oggi, ha fortemente allargato i fianchi e abbassato il capo.

 

CONCLUSIONE

 

 

Frutto di una realtà storico-religiosa, il pensiero di Lorenzo Milani è ben radicato nella Chiesa di Firenze di don Giulio Facibeni, dedito totalmente agli orfani, di La Pira, il sindaco che ricordiamo per l’impegno verso gli oppressi, e della sinistra cattolica di Nicola Pistelli. Da un punto di vista sacerdotale, vedo don Lorenzo ben collocato tra i padri non violenti della Teologia della Liberazione. A differenza del pensiero comune ai marxisti e ai cattolici bigotti, non credeva nell'intellettuale o nell'avanguardia di ieri, tanto meno avrebbe creduto nei leader o nei manager d'oggi, eccezion fatta per personalità illuminanti come Mattei e Adriano Olivetti. Proprio a Pistelli, direttore di “Politica“ settimanale della sinistra cattolica fiorentina di allora, scrive una lettera che sembra dedicata esclusivamente al ruolo e al rapporto che doveva avere il cattolico con il proprio vescovo. Il testo che doveva essere pubblicato con il titolo: “Un muro di foglio e d’incenso” diventa a poco a poco un esame di coscienza, fa capire i rapporti sempre tesi tra il Priore e la gerarchia ecclesiastica. La data è 8 agosto 1959, quando ancora la Spagna era franchista. Lo spunto a scrivere tale articolo è dato dal cardinale di Palermo Ernesto Ruffini che in un’intervista a La Stampa avrebbe dichiarato: “Voi giornalisti, parlate pochissimo della Spagna. Direi che vogliate ignorarla di proposito. Eppure averla amica potrebbe esserci di validissimo aiuto contro il comunismo“. Chi corregge o prova a parlar francamente al vescovo colto in fallo, troppo pieno di sé, saputello, superbo, ignorante? E' giusto coprire la sua vuotezza? Si domanda don Lorenzo Milani. La risposta la da lui stesso, denunciando un isolamento dalla realtà che cresce, per gerarchia o vicinanza. Il cattolico comunica col giovane cappellano. Comunica meno col suo parroco di campagna. Per nulla col monsignore. Mai col suo vescovo che vede ogni cinque anni, mai da solo, dopo molta anticamera, in una sala imponente, imponente lui stesso per età, per carica, per grazia. Compito d’ogni cristiano è dunque quello di informare il proprio vescovo che sbaglia, anche a costo di essere perseguitato oppure esiliato in vetta al monte Giovi. Se è Dio che la disegna, dobbiamo imparare la lezione direttamente dalla Storia, se vogliamo ravvederci: “… Quando si sente il cardinal Ruffini lodare il regime spagnolo, verrebbe voglia di dirgli che un dittatore sanguinario o un governante incapace fa più male alla Chiesa quando la protegge che quando la combatte. Ma invece non ci deve essere bisogno di dire queste cose al cardinale. I princìpi li sa, il Vangelo lo conosce. Non è di idee giuste che occorre rifornirlo. Le avrebbe inventate da sé senza che nessuno gliele avesse suggerite se solo avesse visto certi fatti. Oppure se li avesse saputi con tanta precisione e insistenza da esser come se li avesse visti. Di fronte al bisogno ogni uomo diventa inventore come Robinson nell'isola. E il bisogno di una soluzione ideologica soddisfacente lo crea il cuore quando ha visto la sofferenza. Un cardinale (fino a prova contraria) lo presumi in buona fede, onesto, buono e inorridito del sangue. Se la sua mente non cerca quali siano gli errori di fondo del regime spagnolo è segno che i suoi occhi non erano presenti a qualcuno di quei fatti disumani che visti da vicino bastano a schierare un cuore per sempre. Nell'austero silenzio della biblioteca di un convento domenicano dove non entra né pianto di spose né allegria di bambini, si può ben disquisire sulla liceità della pena di morte, sui diritti del principe e sulla preminenza del bene comune. Ma nel cortile di un carcere spagnolo quando il forte il vincitore uccide il debole il vinto, quando solo a guardarla in viso la vittima si rivela non un comune delinquente ma creatura alta che ha preposto il bene del suo prossimo al proprio tornaconto. Oppure fuori dei cancelli dove l'urlio di madri, spose, figlioli trasforma anche il comune delinquente in figlio, marito, babbo, in qualche cosa cioè che vorremmo far vivere e non morire, allora le conclusioni di biblioteca si vorrebbe tornassero in altro modo, allora si ritorna sui testi con un altro desiderio in cuore e nel giro di un'ora il meccanismo dei sillogismi ha bell'e sfornato la soluzione giusta. Questo saprebbe fare anzi correrebbe a fare anche il cardinal Ruffini, ne son sicuro. Ma il cardinale, nel cortile del carcere di Barcellona nel giorno del Congresso Eucaristico non c'era. E non c'era neanche l'inviato speciale del muro di carta che lo circonda. L'inviato era pochi passi più in là in quella stessa Barcellona in quello stesso giorno. Era a fotografare il generale Franco genuflesso su un faldistorio di velluto rosso dinanzi a centomila fedeli sudditi, mentre leggeva la consacrazione della Spagna al Sacro Cuore. Il generale Franco non ha ascoltato neanche il telegramma del Papa per gli undici sindacalisti di Barcellona e li ha uccisi a sfida nel giorno stesso del Congresso ”.

 

 

S.Scolaro









Il Santo Scolaro