GIORGIO PECORINI

Giorgio Pecorini

«Se Civiltà Cattolica rivaluta don Milani»: così, senza interrogativi né condizionali, il Corriere della Sera dell’8 ottobre 2007 intitolava una breve nota di Alberto Melloni nella pagina della cultura.
«Se …» che cosa? Quarant’anni abbondanti erano passati dalla morte (26 giugno 1967) di Lorenzo Milani: quattro in meno di quanti ne è durata la sua intera vita. Un tempo eguale, più sei settimane, era passato anche dall’uscita di Lettera a una professoressa. Giuntiamocene all’indietro altri nove di anni, e arriviamo al 25 marzo 1958, il giorno del “finito di stampare” di Esperienze pastorali, il primo e unico libro “suo”: gli altri testi pubblicati in vita da Milani essendo, spiegava lui, ricerche ed esercizi: strumenti di lavoro della scuola.
Esperienze pastorali l’aveva cominciato a pensare e ad abbozzare nel 1947 quando, fresco di seminario, era stato mandato cappellano a San Donato di Calenzano. Da allora, e anche dopo il trasferimento punitivo a Barbiana, negli ultimi giorni del 1954, lo aveva incessantemente scritto riscritto corretto e abbondantemente integrato.
Ne erano risultate 471 pagine. In nessuna delle quali i censori del santo offizio han potuto trovare un appiglio per metterlo all’indice. Si son dovuti perciò contentare del ritiro del libro dal commercio e della proibizione di ristampe e traduzioni, per «motivi di opportunità»: operazione tecnicamente possibile perché l’autore aveva ceduto (gratis) i diritti a una casa editrice cattolica, la Lef.
Il decreto censorio è datato 10 dicembre ’58. Il 15 viene trasmesso all’arcivescovo di Firenze, il quasi nonagenario cardinale Elia Dalla Costa. Il cui coaudiutore Ermenegildo Florit (gliel’hanno messo al fianco da quattro anni senza che lui l’avesse chiesto e senza avvertirlo, “per alleviargli la fatica” dicevano, in realtà per controllarlo) lo notifica il 19 a don Lorenzo con una lettera irta di tutte le maiuscole prescritte dal galateo vaticano. Ma, intuendo che la notizia possa recargli «qualche amarezza» e «tuttavia sicuro che la Sua pietà sacerdotale l’aiuterà ad accogliere con docilità filiale la disposizione della Santa Sede», gli garantisce che «il Signore non mancherà di venirLe incontro con i Suoi lumi e con la Sua grazia confortatrice». Aggiungendoci in proprio, con l’augurio per l’imminente santo Natale, paterni saluti e una benedizione.
Ogni data se ne tira dietro tante altre; e questo è in fondo il bello degli anniversari. Archiviato col 2007 il quarantennale doppio di Lettera a una professoressa e della morte di Milani, al 2008 tocca un cinquantennale anch’esso doppio: quello di Esperienze pastorali e quell’altro della condanna da cui nasce la disgrazia di don Lorenzo dentro la sua “ditta”, come lui chiamava la chiesa, e insieme, paradossalmente, la sua fortuna nel più vasto e aperto mondo della cultura e della società civili, religiose e laiche.
Per ottenere la condanna serviva una stroncatura: la curia fiorentina s’è data da fare fin che ha trovato a chi commissionarla. Una storia piuttosto squallida, sospettata fin dall’inizio ma verificata e documentata soltanto 36 anni dopo, a 26 dalla morte di Milani1). Eccola, in sintesi, per capire cos’è accaduto allora e cosa c’è da celebrare oggi.
3 giugno 1958 - Florit manda a monsignor Ferdinando Lambruschini, docente di teologia morale alla pontificia Università lateranense ma fino all’anno prima officiale del santo offizio, una copia di Esperienze pastorali chiedendogli nella lettera “riservata” d’accompagno di «esaminarlo» e di segnalargliene i passi «più criticabili». Il volume, spiega, in libreria da appena un par di mesi, ha già suscitato  grande interesse fra chierici e laici, discussioni vivaci sui giornali e «un certo scalpore» nella chiesa di Firenze. Accenna anche, ma di sfuggita, all’imprimatur dato personalmente, forse per un equivoco, dal cardinale Dalla Costa.  
9 giugno - Lambruschini risponde: ricevuto il libro, aveva pensato di dargli «uno sguardo affrettato» invece appena cominciata «la lettura lo ha interessato ed è stata una lettura totale». Quanto ai passi più criticabili gli pare «difficile assai» indicarli: il problema è l’impianto generale e semmai la parte più criticabile è la prefazione. Ma quella, entusiasta, l’ha scritta un arcivescovo, Giuseppe D’Avack, di cui non vuole certo «giudicare le impostazioni e le valutazioni». Si limita perciò, anche lui «con riservatezza», a un elenco sommario di «rilievi negativi», aggiungendo che se ne potrebbe fare uno «parimenti lungo» di quelli positivi. Infine, colta l’intenzione delatoria di Florit, gli ricorda di non far più parte del santo offizio. E lo sconsiglia dal chiederne l’intervento, anche per via di quell’imprimatur.
14 luglio – Angelo Dell’Acqua, sostituto della segreteria di stato vaticana, fra le persone più vicine al papa, che è Pio XII, trasmette a Florit un lungo documento anonimo di critica a Esperienze pastorali accompagnato da un rimprovero: «Come l’Eccellenza Vostra può facilmente comprendere, ha qui suscitato meraviglia il fatto che la Curia Arcivescovile di Firenze abbia concesso il suo Imprimatur a tale pubblicazione».
28 luglio – Florit risponde a Dell’Acqua per prima cosa tirandosi fuori dalla grana dell’imprimatur, dato «del tutto all’insaputa» sua, poi insinuando il sospetto di un raggiro se non addirittura di un imbroglio alle spalle del vecchio cardinale. Si domanda «quale via converrà ora scegliere» per non lasciare senza qualche censura il libro e insieme scansare il rischio che colpendolo «raggiunga maggiore notorietà e venga maggiormente diffuso, specie tra il giovane clero». Chiude avanzando l’ipotesi che per un auspicabile intervento «la sede più opportuna sia la “Civiltà Cattolica”».
7 agosto – Detto e fatto: a (quasi) stretto giro di posta monsignor Dell’Acqua risponde: «mi pregio di comuncarLe  che la cosa è stata richiamata all’attenzione per un articolo su la Civiltà Cattolica». 
20 settembre – Su La Civiltà Cattolica esce l’articolo di padre Angelo Perego: 13 pagine di stroncatura. Smonta il libro pezzo a pezzo stralciandone frasi che enucleate dal contesto riducono gli argomenti a paradossi. Risponde in termini burocratici alle invocazioni più accorate e più ardite. Neppure accenna all’imprimatur autografo di Dalla Costa, al nihil obstat del revisore, alla lunga consenziente prefazione dell’arcivescovo D’Avack; e chiude la requisitoria così: «All’autore di questo libro ci sia permesso, infine, di augurare, anche come riparazione del grande male che la sua opera certamente farà a tante anime irrequiete e poco formate, di poter scrivere, come si conviene a un sacerdote di Cristo, pagine più serene, nelle quali con la fermezza dell’impegno traspiri l’equilibrio, la verità, la giustizia, la docilità e l’amore universale».
27 settembre – Il santo offizio (sollecitazione di qualcuno che la pensa diverso da monsignor Lambruschini o è bastata la requisitoria di Civiltà Cattolica?) chiede a Florit di mandare una copia di Esperienze pastorali, di «riferire sull’impressione prodotta dal citato libro ed esprimere in merito il Suo autorevole parere».
senza data, solo numero di protocollo – Rispondendo al santo offizio Florit può finalmente sputare il rospo. Premesse poche righe di accenno alla provenienza familiare di Lorenzo Milani, alla sua conversione e all’avvio della carriera ecclesiastica, assicura che è «un sacerdote indubbiamente di buoni costumi, di intelligenza abbastanza penetrante», e che i superiori «non hanno dovuto lamentare in lui segni particolari di indisciplina o di ribellione» nonostante vari difetti tra cui «il grande amore al paradosso e una spiccata libertà di giudizio». Quanto al libro, «la maggior parte dei sacerdoti», vecchi e giovani, «lo hanno giudicato sfavorevolmente con l’aiuto del buon senso e del senso critico». Ma «c’è anche un gruppo di difensori a oltranza che non brillano per il loro equilibrio. In genere si sono riscontrate nel volume alcune doti ma anche una buona dose di esagerazioni e di approssimazioni […].  In particolare non si è mancato di rilevare che certe conclusioni […] sono in contrasto con norme e indirizzi formulati e impartiti dai romani pontefici». Spruzzato quel vago odore d’eresia, chiude con una meticolosa autodifesa per la storia dell’imprimatur e del nihil obstat.
9 ottobre – Pio XII (Eugenio Pacelli) muore.
25 ottobre –  Giuseppe Roncalli diventa papa Giovanni XXIII.
10 dicembre – Il santo offizio redige il decreto censorio che, ratificato l’indomani dal nuovo papa, il 15 viene trasmesso all’arcivescovo coadiutore di Firenze Florit e da lui girato a don Milani il 19.
 20 dicembreL’Osservatore Romano pubblica in prima pagina sotto il titolo anodino “Esperienze pastorali” un’intera colonna di analisi del testo. Seguendo la traccia della stroncatura di Perego conclude cha «un libro come questo è destinato ad aumentare la non mai abbastanza deprecata confusione delle idee, a disorientare più che ad orientare saggiamente gli uomini di buona volontà chiamati per divina vocazione a svolgere la loro attività missionaria in un campo tanto delicato e difficile: perciò non si sarebbe dovuto consegnare alle stampe». Si conforta infine rivelando d’essere informato del decreto censorio e se ne consola con «una speranza: che il tempestivo e provvidenziale intervento del S. Offizio valga a illuminare tutti i Sacerdoti, i quali con tanta abnegazione e inconcussa fedeltà all’insegnamento della Chiesa prodigano le loro energie per portare alle anime la dottrina evangelica». 
Il crocifisso e gli obiettori
Roba vecchia di mezzo secolo ma gli anniversari son fatti apposta per resuscitare e rivisitare il passato. Col quaderno 3775 del 6 ottobre 2007 la rivista dei gesuiti ha aperto con buon anticipo il cinquantenario di quell’articolo con cui padre Angelo Perego (quaderno3598, 20 settembre 1958) «azzannò con ferocia il priore di Barbiana e le sue Esperienze pastorali» usando «argomenti non veri. E martellava con espressioni violente». Il duro giudizio è di Alberto Melloni, l’autorevole storico cattolico, nella nota sul Corriere citata all’inizio. Fatto un rapido sunto degli argomenti con cui un altro gesuita, Piersandro Vanzan, dichiara ora don Lorenzo «un prete schierato col vangelo», il professor Melloni se ne contenta così: «Oggi La Civiltà Cattolica definisce  don Milani uno dei “profeti obbedienti ma tribolati”: qualcosa è cambiato. In soli 40 anni».
Gli anni in realtà sono 50 ormai. Ma, decennio più decennio meno, a cosa serve “rivalutare” un don Milani morto senza smontare il meccanismo perverso che ha consentito di svalutarlo da vivo «con argomenti non veri»? Non sarebbe meglio sconfessare prima chi, sbandierando l’alibi del segno dei tempi, sèguita ad «azzannare con ferocia» e a «martellare con espressioni violente» chiunque, vivo, si provi se chierico a schierarsi fino in fondo col vangelo o s’azzardi se laico a rivendicare la dignità e la responsabilità delle proprie scelte libere?
Resta poi da capire cosa in concreto rivaluti Civiltà Cattolica nelle 12 pagine del suo redattore d’ora padre Vanzan.
Sotto il titolo “Don Lorenzo Milani un prete ‘schierato’ con il vangelo” comincia con una biografia sintetica che non ha né l’asciuttezza umile della scheda né l’impegno faticoso dell’analisi e del confronto delle fonti, spesso dubitative se non contradditore. Che recupera un’aneddotica frusta, ai limiti dell’agiografia.
In tutto l’articolo molte citazioni sono di seconda e terza mano, da stralci fatti da altri, senza verificarne autenticità e completezza sui testi originali, disponibili da tempo.   
Si prende per buona l’assicurazione di Michele Gesualdi di aver ripristinato quasi tutti i tagli fatti alle lettere di don Lorenzo Milani per l’edizione mondadoriana del 1970, infinite volte ristampata; e riedite dalla San Paolo per il quarantennio. Avesse verificato, si sarebbe accorto che parecchi di quei tagli sono invece rimasti, assieme a cambi di parole e sostituzioni di nomi; e che neppure sempre «le parole o i brani omessi sono indicati con puntini chiusi tra parentesi quadrate», contrariamente a quanto afferma la “nota introduttiva”.Non avrebbe in un solo capoverso (il secondo di pagina 45) trascritto non dal testo ma da un libro altrui una fra le più note ed emblematiche frasi di Lettera a una professoressa né messo in bocca a Milani uno fra i più incisivi giudizi di padre Ernesto Balducci, anch’esso preso di rimessa(2).
Ma queste non sono che distrazioni veniali, piccole sciatterie. Altre sono le cose di rilievo e peso sostanziali.
La prima e peggiore mi pare l’aver relegato in una nota (la 16 a pagina 38) uno dei gesti più caratterizzanti il “maestro” Lorenzo Milani: la rimozione del crocifisso dall’aula della scuola popolare di San Donato. Quasi si trattasse d’un episodio marginale, forse una bizzarria, e non della dichiarazione e certificazione del rigore laico e antidottrinario del suo obiettivo educativo. Come fosse un fatto irrilevante nel momento in cui in Italia si discute e ci si divide sull’uso e l’abuso del crocifisso e di tutti i simboli di tutte le religioni.
Sempre in nota (29, pagina 39) è liquidato a questo modo il trauma della messa sotto tutela dell’arcivescovo titolare: «All’interno della Curia fiorentina erano avvenuti alcuni cambiamenti: infatti il trasferimento di don Lorenzo coincise con l’affiancamento al card. Elia Dalla Costa di monsignor Ermenegildo Florit».  
Imprecisioni e approssimazioni varie a parte, colpisce poi la sordità rispetto al senso più vero e profondo della posizione di Milani sull’obiezione di coscienza. Il rifiuto di indossare un’uniforme e di maneggiare un fucile è per don Lorenzo e i suoi ragazzi soltanto un utile pretesto a rivendicare autonomia di giudizio e assunzione di responsabilità in ogni momento dell’esistenza. Il dolore e l’indignazione di Milani e dei suoi ragazzi non sono per la galera con cui lo stato punisce gli obiettori ma per il silenzio con cui la chiesa si fa complice dei carcerieri addirittura benedicendoli assieme alle loro armi e bandiere.
Con l’articolo d’ora insomma Civiltà Cattolica punta a due obiettivi. Il primo, esplicito, è “rivalutare” don Milani 40 anni dopo morto. Il secondo, implicito, è rivalutare se stessa, minimizzando la condanna inflittagli 50 ani fa, quand’era vivo.
“Ciò che sopprattutto conta …”
Padre Vanzan comincia lealmente riconoscendo che il vecchio articolo del suo confratello e collega in giornalismo Angelo Perego era il risultato «delle pressioni della Curia fiorentina sulla Segreteria di Stato». E che «la pubblicazione di quelle pagine determinò un cambio di rotta nella stampa ecclesiastica e filogovernativa, con giudizi prevalentemente negativi, mentre il Sant’Offizio aprì un’inchiesta, conclusasi il 10 dicembre con la condanna del libro e il suo ritiro dal commercio».
Peccato che persino questa notizia anziché andarsela a pescare integrale nell’archivio del proprio quindicinale la prenda a prestito da uno fra i tantissimi libri che la riportano, variamente riassunta e scorciata. Che non si riferisca neppure di striscio alla particolareggiata ricostruzione della storia, disponibile fin dal 1994 in tutte le sue pieghe non tanto limpide né edificanti. Che trascuri la testimonianza del segretario di Giovanni XXIII, monsignor Loris Capovilla, il quale documenta come e perché Roncalli, alla vigilia di diventar papa, abbia dato quel famoso duro giudizio su Esperienze pastorali e sul suo autore: «deve essere un povero pazzerello scappato dal manicomio. Guai se si incontra con qualche confratello della sua specie!». Il libro, scrive Capovilla, «non pervenne mai nelle mani del cardinale Roncalli. Egli lesse la “stroncatura” […]. Solo tenendo presente quanto sopra si spiega la [sua] reazione preoccupata. La Civiltà Cattolica faceva testo allora e ancora oggi. […] Su quella condanna anch’io mi acquietai […]. Su Civiltà Cattolica si giurava come “in verbo magistri”. Allora non lessi il libro. Mi bastarono le recensioni. Io non dubitai minimamente dell’obiettività di padre Perego, magari lo giudicai troppo duro, tagliente e freddo; ma non ingiusto, parziale e (in parte) disinformato»(3). Tutto questo interessa molto poco a padre Vanzan, che Capovilla si limita a nominarlo in una nota (la 27 di pagina 42) senza richiamarne la testimonianza specifica.
Nella nota immediatamente precedente (26, stessa pagina) ricorda «che la nostra rivista, nel 1970, pubblicò un articolo di Giuseppe De Rosa, “Un profeta del nostro tempo?  Don Lorenzo Milani nelle sue Lettere”, in cui, dopo un’attenta analisi degli scritti del priore di Barbiana, concludeva: “Don Milani è stato a suo modo, ma con una sincerità e una coerenza che sarebbe ingiusto negare, un uomo che ha profondamente amato e servito Dio, la Chiesa e i poveri. E questo è ciò che soprattutto conta nella vita di un prete”». Poco o nulla invece sembra contino le ingiustizie, le calunnie e le angherie con cui un vescovo e altre varie gerarchie ecclesiastiche compensano la vita, fin che dura, di un prete a quella maniera.
L’articolo uscì sul quaderno 2890 del 21 novembre 1970 come recensione al volume dell’epistolario appena edito da Mondadori. Padre De Rosa era  un semplice redattore di Civiltà Cattolica, don Lorenzo era morto da tre anni e mezzo, padre Angelo Perego era sempre vivo: qualche prudente cautela ci voleva. Lo scrupolo di riconoscere l’ortodossia, l’onestà intellettuale, l’impegno civile e il rigore etico di Lorenzo Milani prete ma anche cittadino e maestro, doveva convivere col bisogno di salvare la faccia di Angelo Perego. Impresa ardua ma non impossibile per la sottigliezza intellettuale e l’acribia di un gesuita: quelle Lettere «ci rivelano – se l’è cavata De Rosa – la profonda umanità di don Milani e, insieme, il suo spirito sacerdotale cristiano». Sottinteso, ma implicito nell’intero andamento della recensione, che il giudizio su Esperienze pastorali e il suo autore sarebbe stato diverso e più  equo se il povero Perego avesse potuto conoscerle, quelle lettere.
Non poteva capire, non sapeva distinguere!
Salvati così capra e cavoli, s’è spinto fino a «ricordare quello che è stato certamente il capitolo più doloroso della vita [di Milani]: il capitolo dei suoi rapporti con i suoi superiori ecclesiastici». Quanto alle responsabilità di quel capitolo e alle ragioni di quel  dolore, meglio non indagarle, per ora: tempo e momento verranno, le prospettive della chiesa, si sa, sono lunghe, molto lunghe.
Nel dicembre del 1988, quando il 16 e il 17 il comune e il Gruppo don Milani di Calenzano organizzarono un convegno per discutere di Esperienze pastorali nel trentennio dalla pubblicazione, padre Perego era morto da un anno: il momento cominciava ad avvicinarsi, padre De Rosa, diventato vicedirettore della rivista, poteva cominciare a rileggere un po’ meglio la famosa stroncatura. E lo ha fatto, gradualmente correggendo il crudele giudizio fino a garbatamente capovolgerlo: Perego era arrivato a quelle conclusioni ingiuste non soltanto perché non disponeva delle Lettere e di tante altre carte venute fuori dopo ma anche perché alcune cose non arrivava proprio a capirle: «non riesce a cogliere» né il senso di tutti i discorsi di don Milani né la sostanza di qualche «vero» o addirittura «gravissimo problema […] non distingue tra una dottrina e gli uomini che la professano». Quando poi, nel dibattito seguito alle relazioni, uno degli intervenuti ha rimproverato Civiltà Cattolica di «mancato pentimento», De Rosa l’ha difesa con una bugia: la stroncatura, ha spiegato, fu «decisa dal gruppo di allora della rivista per parare in un certo senso la condanna ufficiale che si stava già preparando e di cui già circolavano indiscrezioni».
La verità è diametralmente opposta: l’intervento di Civiltà Cattolica fu commissionato dalla curia di Firenze e consentito dal Vaticano come scorciatoia per colpire in qualche modo il libro e chi lo aveva scritto, vista l’impossibilità di ottenere una «condanna ufficiale» per la via maestra delle inchieste dottrinali e disciplinari. Certo, ricordiamolo, nel 1988 la documentazione poco sopra sintetizzata non era ancora pubblica. Ma come credere che il neo vicedirettore, entrato (lui stesso tiene a precisarlo) «nella redazione della rivista due mesi dopo la stroncatura di p. Perego», nulla avesse saputo o soltanto intuito allora della sua genesi, col gran baccano derivatone; né che a trent’anni di distanza gli sia venuta voglia di andarsela a ricostruire nell’ordinato archivio? Il fatto è che la cosa più importante in quel momento era frenare chi già cominciava a recuperare idee e proposte milaniane: «Mi sembra di poter dire che Esperienze pastorali è un’opera “datata”, cioè risente in maniera fortissima del momento storico in cui è stata scritta e del particolare ambiente in cui don Milani è vissuto. Perciò anche le soluzioni ai problemi pastorali che egli propone sono datate», sentenziava in conclusione De Rosa(4).
Salvare la reputazione. Ma di chi?
Quel che a padre Vanzan preme soprattutto oggi è la stessa cosa che ieri e ier l’altro premeva  a padre De Rosa: salvare la reputazione della rivista per suggerire che la stroncatura di padre Perego non deve essere poi stata così devastante, se ha lasciato un don Milani “rivalutabile”! Gli basta insomma sostituire alla violenza dell’anatema un più pacato ma non meno distruttivo certificato di inutilità: percorrere una specie di circonvallazione pur d’arrivare al solito capolinea di rifiuto e di condanna.
Archiviata  con la sentenza De Rosa dell’’88 l’inattualità di don Lorenzo prete, restava da liquidare il Milani maestro, con la sua scuola «rigorosamente laica come quella di un liberalaccio miscredente»(5) in cui s’intestardiva a educare «cittadini sovrani». Ci provvede, altri vent’anni dopo, padre Vanzan. Comincia trascrivendo parzialmente, fuor dal contesto e senza decodificarne la provocatorietà volontariamente paradossale, la famosa battuta della lettera del 28 settembre 1960 a Elena Pirelli Brambilla:
«I miei eroici piccoli monaci che sopportano senza un lamento e senza pretese 12 ore quotidiane feriali e festive di insopportabile scuola e ci vengono felici non son affatto eroi, ma piuttosto piccoli svogliati scansafatiche che hanno valutato (e ben a ragione) che 14 ore o anche 16 ore nel bosco a badare pecore son peggio che 12 a Barbiana a prendere pedate e voci da me. Ognuno vede ch’io non ci ho merito alcuno e che il segreto di Barbiana non è esportabile né a Milano né a Firenze. Non vi resta dunque che spararvi».
In quella dichiarata inesportabilità Vanzan scopre «il nucleo del suo messaggio». E alla scoperta segue il rammarico: «Purtroppo, proprio questo suo testamento venne trascurato o frainteso da vari suoi epigoni». Senza star a distinguere tra chi tenta di capire gli obiettivi e i metodi delle due scuole e del loro maestro per reinterpretarli e operare nella realtà d’oggi con gli strumenti d’oggi, e chi vuol scimmiottare San Donato e Barbiana cercandone la ricetta come si trattasse del minestrone o del brasato.
Prima datato poi inesportabile
Datato e inesportabile, dunque: ottime conclusioni, traducibili entrambe così: don Lorenzo Milani era solo unico onestissimo bravissimo ma irripetibile e ora che grazie a dio è morto e non può più far danno, nessuno venga a romperci con la sua lezione e le sue proposte: quanto s’ha da fare lo sappiamo da noi, e lo facciamo senza che qualcuno, vivo o morto, s'azzardi a insegnarcelo.
Vien da rimpiangere la rozza schiettezza di un Perego, con l’invito finale a ritrovare e praticare «l’amore universale». Una tirata cui don Lorenzo ha risposto allora a muso duro: «Io non conosco che qualche gesuita che sia capace di questo orribile peccato contro natura di amare per dovere»(6). Ma a chi gli dà di «inattuale», quasi le sue proposte fossero medicine o alimenti da consumarsi entro e non oltre una data, e di «in esportabile», quasi gli mancassero i documenti doganali, che cos’altro potrebbe dire oggi, oltre ripetere quel «non vi resta che spararvi»?  
Gli anniversari consentono anche, se serve, di fare più confusione che chiarezza lasciando ai celebranti la libertà di scegliere quali momenti di un’esistenza fa comodo ricordare e quali ignorare o nascondere; quali fatti è opportuno rievocare e quali no, secondo convenga lodarne, esecrarne o negarne le conseguenze. Le centinaia di convegni seminari tavole rotonde dibattiti conferenze trasmissioni radiofoniche e televisive del 2007 per i quarant’anni di Lettera a una professoressa e della morte di Milani non han fatto eccezione, né le mrgliaia di articoli e le decine di pubblicazioni.
C’era da aspettarselo. Milani se l’era aspettato per primo. «Se avevo ragione o torto si vedrà  fra vent’anni. E mi dispiace solo che sarò morto da un pezzo e non potrò tentare io stesso il saggio statistico dei risultati» ha scritto il giorno di Natale del 1953 da San Donato all’amico magistrato Gian Paolo Meucci. E meno di sette mesi dopo, il 14 luglio del ’52, alla mamma, sempre da San Donato mentre imperversava la «lotta feroce per impedire la [sua] successione » al vecchio parroco in agonia : «Io ho la superba convinzione che le cariche di esplosivo che ci ho ammonticchiato in questi cinque anni non smetteranno di scoppiettare per almeno cinquant’anni sotto il sedere dei miei vincitori»(7).
Nel 1973, alla scadenza del ventennio previsto per Meucci, Milani era davvero già morto, da 6 anni, ma ammiratori e denigratori seguitavano a contenderselo secondo comodo e convenienza strattonandolo senza riguardi e senza alcun tentativo d’un inventario delle ragioni e dei torti.
In questo 2008, sei anni oltre la previsione dei cinquanta fatta alla mamma, la questione se avesse avuto ragione o torto resta irrisolta mentre le cariche di esplosivo davvero non smettono di scoppiettare nella testa oltre che sotto il sedere dei suoi vincitori. Molti dei quali per vincerlo ancor meglio han preso a elogiarne integrità onestà coerenza e infinite altre virtù ma tutte o quasi «datate» e «inesportabili». E arrivano a dargli anche di «profeta», che nel loro linguaggio diventa certificazione di inattualità preventiva e di inesportabilità garantita.
L’anagrafe dev’essere misogina
Fra le tante iniziative celebrative del quarantennale io ne ho seguita una sola, l’11 e 12 maggio all’Università di Firenze. L’avevano pensata Antonio Santoni Rugiu e Carmen Betti con la sana voglia di identificare e studiare ipotesi operative concrete mosse da una tensione e da un impegno etico del genere milaniano(8), ma sùbito il galateo accademico e la sua liturgia hanno imposto limiti e compromessi, con le consuete manovre riduttive e/o manipolatore e le inevitabili glorificazioni e santificazioni gratificanti per chi le compie, rassicuranti per chi le segue. Ne sono risultati due piani diversi e separati di livello e di interesse, due linguaggi non comunicanti.
Da una parte, il resoconto di sperimentazioni educative volte a inventare modi nuovi e diversi di fare scuola legate alla realtà specifica di ogni singolo ambiente umano e sociale in un momento preciso della sua esistenza ancorata alla sua storia: tentativo di recupero dell’aderenza all’hinc et nunc con cui Milani era riuscito a capire e interpretare due universi a lui prima sconosciuti e mai neppure immaginati: quello operaio di Calenzano in cui era piombato direttamente dall’asetticità del seminario e poi quello sottoproletario contadino di Barbiana. In entrambi portandosi dietro gli strumenti intellettuali e il rigore  culturale della propria famiglia altoborghese ma rifiutandone i privilegi sociali conseguenti.
Dalla parte opposta, ripetizione di formule stracche e di aneddoti edificanti mescolati al riciclo di vecchie stupidaggini possibili soltanto per ignoranza o pigrizia o malafede: identifichi ognuno i casi e scelga l’ipotesi migliore. Stupidaggini infinite volte smentite e sempre caparbiamente ripetute. La più ricorrente, forse, è quella di Milani misogino.
Ha cominciato e continua a insisterci Lidia Menapace, insospettabile guida dei gruppi cattolici che attorno al ’68 erano detti del dissenso: «Non vi è una sola bambina nella scuola». È una balla enorme: possibile abbia mai visto le foto, i filmini girati dall’Ammannati, mai letto le lettere del priore e neppure la Lettera? Persino il fatto che la Lettera fosse indirizzata a una ‘professoressa’ le sembra riprova dell’irrecuperabile misoginia milaniana. Mai visti neppure i dati degli Annuari Istat?: nella scuola dell’obbligo gli insegnanti erano, e sono, in stragrande maggioranza femmine, solo fra i dirigenti (guarda caso) prevalgono i maschi.
Un’altra cattolica illustre e dissenziente, Adriana Zarri, condivide il parere dell’amica: «Lettera a una professoressa: e perché non a un professore?, insinua Lidia giustamente; e l’insinuazione è motivata da una certa misoginia che affiora qua e là, dal testo»(9).
Vero è che le femmine erano meno dei maschi a Barbiana. Ma perché? Quando don Lorenzo ci arriva, dicembre 1954, e sùbito comincia a farci scuola, nelle case attaccate alla canonica ci trova, se ricordo giusto, 5 bambini e 2 bambine: che doveva, cambiar sesso ad alcuni per risolvere il problema anagrafico e riequilibrare la statistica? O meglio, cambiarlo stabilmente a qualcuno e a giorni alterni a qualcun altro, per lo squilibrio del numero dispari?
Neppure così avrebbe comunque risolto l’altro problema, che era socio-logistico-culturale. Appena la sua scuola ha cominciato a essere conosciuta nei borghi e nelle frazioni del circondario, i genitori han cominciato a mandarci i figlioli maschi, quasi mai le femmine. Ma si ha un’idea di dov’è e di cos’era Barbiana, e di com’era fatta la scuola? Per arrivarci, a seconda di dove si abitava, bisognava camminare tra una e due ore attraverso campi e boschi, altrettanto per tornare. Ed essendo il calendario scolastico annuale di 365 giorni più uno negli anni bisestili, e l’orario di 12 ore al giorno, cioè dalle 8 del mattino alle 8 di sera, sei mesi l’anno la doppia scarpinata andava fatta a buio. , Aggiungiamo alla legittima prudenza l’indifferenza atavica delle famiglie contadine e variamente analfabete di mezzo secolo fa (e non solo) all’istruzione femminile, e domandiamoci se la presenza a scuola di qualche bambina e di qualche ragazzina non fosse già quasi un miracolo.
Prendiamo Lettera a una professoressa a pagina 16: «Delle bambine di paese non ne venne neanche una [il paese non è Barbiana ma Vicchio, 7 chilometri sotto, ricordiamocelo: le barbianesi a scuola c’erano tutte]. Forse era la difficoltà della strada. Forse la mentalità dei genitori. Credono che una donna possa vivere anche con un cervello di gallina. I maschi non le chiedono d’essere intelligente. È razzismo anche questo».
Eppure c’è sempre chi insiste a recriminare che quella di Barbiana fosse ‘scuola maschile’ soltanto.
Una stupidaggine tira l’altra
Di stupidaggini su Milani  ne girano tante oltre questa del misogino: comunista, classista, autoritario, intollerante, manesco, retrogrado demonizzatore del cinema, della tv e di tutti i media: m’è toccato risentirne anche al convegno di Firenze, e più di una volta; e tutte altrettanto smontabili: basta rifarsi ai testi senza mutilarli né stravolgerli. Ma volere e saper leggere dev’essere davvero difficile, per alcuni addirittura impossibile, quanto per noi persuadere i renitenti a provarci.
Ancora un esempio. A Barbiana la corrente elettrica non c’era. Quando la Rai trasmetteva uno sceneggiato o un’inchiesta di particolare interesse, don Lorenzo organizzava la discesa a qualche casa amica, alcuni chilometri sotto; idem le rare volte che al cinema di Vicchio proiettavano un film di particolare valore: i ragazzi (e le ragazze) non dovevano perdere l’occasione. Lettura e commento dei giornali era lavoro quotidiano a scuola, all’occorrenza con la ‘traduzione in italiano’ di qualche articolo. Quando poi la corrente è arrivata, nel settembre del ‘65, e lui viveva e insegnava lì  da undici anni, Milani ha fatto di corsa tre cose: incetta, ovviamente a scrocco sfruttando un amico rappresentante della Olivetti, di macchine per scrivere e calcolatrici elettriche; acquisto di una lavatrice semindustriale per alleviare la fatica dell’Eda; imprestito di un proiettore 16 millimetri e noleggio dei meglio film da cineteca da passare e ripassare coi ragazzi (e le ragazze) giorni interi fino a smitizzarne alcuni, se necessario. (Alla scoperta-denuncia dell’insopportabile retorica della Tragedia della miniera di Pabst c’ho assistito anch’io.)
Un’edizione speciale e una prefazione ritrovata
A celebrazione del quarantennale doppio anche articoli di quotidiani e periodici, programmi radiofonici e televisivi hanno alternato analisi scrupolose e proposte concrete (poche) a fumisterie retoriche, protagonismi varii e valutazioni preconcette o approssimative (molte). Anche qui chi vuol distinguere, oltre il torto e la ragione, il falso e il vero sa come farlo; e chi non vuole nessuno riuscirà certo a smuoverlo, qualsiasi prova gli si porti o ragionamento lo si inviti a fare.
Più agevole, opportuno e utile è guardare ai libri usciti a ridosso dell’anniversario, partendo dalla Lef(10): l’editrice cui Milani aveva affidato nel 1958 le proprie Esperienze pastorali e nel ’67, poco prima di morire, Lettera a una professoressa, il lavoro collettivo dei suoi ragazzi guidati dalla sua «regia di povero vecchio moribondo»(11), e L’obbedienza non è più una virtù, la raccolta da lui stesso ordinata dei documenti del processo subito per aver difeso gli obiettori di coscienza dalla condanna e dagli insulti di un gruppo di cappellani militari.
Dopo la morte degli ultimi proprietari, i fratelli Valerio e Vittorio Zani, la  Lef è stata acquistata nel 2004 da Giannozzo Pucci, discendente di una fra le più antiche famiglie aristocratiche di Firenze (palazzo e via omonimi tra prefettura e duomo), intellettuale cattolico laicamente impegnato nella vita culturale e politica, ambientalista ed ecologista militante, consigliere eletto per una legislatura nelle liste dei Verdi e presidente di varie commissioni comunali.
Deciso a confermare i caratteri della vecchia casa e insieme ad aprirla a sensibilità e interessi nuovi,  Pucci ha sùbito proseguito e intensificato la ristampa dei testi di e su Milani già in catalogo e commissionato altri titoli. Poi ha preparato un’edizione speciale di Lettera a una professoressa “quarant’anni dopo”.
Il primo e maggior pregio del volume “a cura della Fondazione don Lorenzo Milani” è il restauro tipografico del testo finalmente restituito all’originaria pulizia e chiarezza cui don Lorenzo aveva pignolescamente badato e che di ristampa in ristampa s’era via via sporcato, particolarmente nelle tabelle, da ultimo perfino taccagnamente spogliate dei colori, essenziali per la comprensione.
Un gruppo di apparati, alcuni inediti, precede il testo. A una breve, chiara “nota dell’editore” con l’invito a considerare quel libro «una proposta di conversione personale più attuale che mai», seguono il racconto di “Come è nata Lettera a una professoressa”, sette pagine firmate da Sandra Gesualdi; e in altre 6 pagine la “Prefazione dell’architetto Giovanni Michelucci”.
Chi conosce anche soltanto all’incirca la storia della scuola di Barbiana sa che Gesualdi è il cognome dei due fratelli, Michele e Francuccio, affidati bambini al priore e sempre rimasti a vivere con lui nella sua casa. Quasi certamente sa pure che dopo la morte di don Lorenzo, Michele, il maggiore, è stato per alcuni anni dirigente sindacale della Cisl e poi per due legislature presidente della provincia di Firenze, eletto con l’Ulivo; e che Francuccio, promotore con Alex Langer del commercio equo e solidale, è fondatore e organizzatore del Centro per un nuovo modello di sviluppo collegato ai movimenti impegnati a denunciare e contrastare in tutto il mondo le prevaricazioni e gli sfruttamenti delle multinazionali(12). Ma Sandra Gesualdi chi è? Come fa a conoscere così bene dall’interno la vita della scuola, a dare testimonianza così intensa e diretta delle emozioni e delle sofferenze, fisiche e no, del priore? Non lo si spiega.
Il mistero dei paragoni scomparsi
Anche la prefazione di Michelucci è un mistero. Il 7 aprile del ’67, due mesi e diciannove giorni prima di morire, », don Lorenzo mi scriveva nell’ultima sua lettera(13: «Mi ero fatto fare una prefazione dall’architetto Michelucci (stazione di Firenze, chiesa dell’Autostrada ecc.) che è come me un maniaco dell’arte anonima e del lavoro d’équipe. Parlava p.es. dei maestri comacini, dei mosaicisti cristiani, delle cattedrali gotiche, delle ferrovie e dell’Autostrada (ponti ecc.) tutte opere di scuola e non di autore. E poi del cinema in cui tutti sono abituati a vedere decine e decine di nomi di cui nessuno riesce esattamente a scindere cosa ha fatto ognuno (regista, soggettista, dialogo, fotografia musica costumi attori ...). In conclusione si ricorda forse il nome del regista ma è per esempio pacifico che il soggetto cioè il contenuto cioè talvolta il più non è suo. Ora la prefazione di Michelucci è risultata troppo difficile per i lettori che noi vogliamo e così ho chiesto a quel sant’uomo se potevo non metterla».
La Lettera è dunque uscita senza, e tale è rimasta di ristampa in ristampa, per quarant’anni. Adele Corradi(14), ricorda di avere allora provato, su incarico di don Lorenzo, a semplificare quel testo ma di averci presto rinunciato; e si rammarica ora di non averne conservato copia. Nel primo riordino della carte del priore cui ho dato una mano tra l’agosto e il settembre del ’67(15), non se n’è vista traccia.
Poco dopo la morte di Milani andai da Michelucci chiedendogli di farmi leggere la prefazione rifiutata: lo stesso Lorenzo, già inchiodato al letto nella casa della madre in via Masaccio, me l’aveva suggerito nell’ultimo nostro incontro a maggio. Nel suo studio fiorentino in cima a un’antica torre di borgo San Jacopo, Michelucci frugò in cartelle e cassetti e non la trovò. Mi promise di cercarla meglio, anche a casa a Fiesole. Ci rivedemmo un altro paio di volte ma niente: «chissà dove si sarà perduta», concluse dispiaciuto e rassegnato.
Il 31 dicembre 1990 Michelucci morì, tre giorni prima di compiere cent’anni. Di lì a qualche tempo contattai la Fondazione da lui creata nel 1982: speravo che riordinando sistematicamente tutto avessero trovato qualcosa, e da capo nulla. Finché a primavera del 2007 la fantomatica prefazione è rispuntata nell’edizione speciale della Lettera. Nello stesso nuovo volume della Lef il racconto introduttivo di Sandra Gesualdi dà conto della richiesta fatta da don Lorenzo a Michelucci, del tentativo fallito di semplificarne il testo e della rinunzia a inserirlo, ma non dice da chi, quando e dove è stato ritrovato. Qualche notizia interesserebbe pure alla Fondazione, i cui risposabili han di nuovo e inutilmente frugato gli archivi.
La prefazione è davvero bella, coinvolgente, commossa; e davvero, come aveva chiesto Milani, dimostra che la fatica paziente e la tensione etica della scrittura collettiva barbianese volta a costruire cittadini-sovrani sono eguali all’impegno umano e sociale di un’architettura volta a interpretare i desideri e i bisogni dei cittadini per soddisfarli e servirli. Ma davvero il linguaggio era «troppo difficile per i lettori che noi vogliamo»; e hanno avuto ragione a lasciarla fuori: ne avessero avuto il tempo sarebbero certo riusciti a “tradurla” alla loro maniera. Don Lorenzo era invece allo stadio terminale e il libro stampato doveva almeno vederlo.
Il testo inserito nell’edizione speciale della Lef pone poi un ulteriore problema, di contenuto: fa un solo esempio di lavoro collettivo anonimo, quello degli scultori romanici (i «maestri comacini» di Milani), e nessun accenno ai molti altri elencati nella lettera del 7 aprile ’67. Che dire, nulla sapendo del recupero? Impensabile un errore di don Lorenzo: stava molto male, ma era lucidissimo e la questione gli premeva troppo. Né sta in piedi l’ipotesi di più versioni differenti: tutti ne ricordano una sola, a una soltanto si riferiva Michelucci nei nostri colloqui.
Poche settimane dopo la prima edizione speciale di Lettera, “a cura della Fondazione don Lorenzo Milani” (dirò più avanti cos’è), la Lef ne  ha mandato fuori una seconda “riveduta e corretta”, stavolta “a cura di Michele Gesualdi – Fondazione eccetera”. In questa seconda il racconto della nascita di Lettera ha un cappelloda cui si deduce che l’autrice Sandra, così affettuosamente impegnata a «indagare, ricostruire, leggere, cercare, approfondire in prima persona […] gli eventi che hanno contribuito a formare mia madre e mio padre», è una delle due figliole di Michele e di Carla Carotti, lei pure fra i primi allievi del priore. E si comprende meglio perché si sia proposta di aiutare «a far emergere il vero spirito» del famoso libro, cioè «la richiesta di una scuola per tutti, in cui essere protagonisti e partecipi, liberi e consapevoli».
Nessun chiarimento invece né sulla prefazione di Michelucci né sul criterio di scelta dei documenti dell’apparato, alcuni ampiamente noti, altri di provenienza non dichiarata; tutti comunque interessanti e utili ma che lo sarebbero molto di più se meglio contestualizzati(16).
Oltre a Esperienze pastorali, mai realmente ritirate neppure dalla vecchia Lef(17), la nuova sèguita a ristampare tutto quello che di milaniano s’è trovata in catalogo, aggiungendovi nuovi titoli: brevi antologie e stralci dagli scritti di don Lorenzo, studi e ricerche su lui e le sue due scuole
La censura fa sempre male
All’inizio di questa nota, analizzando l’articolo riabilitatorio di padre Vanzan ho accennato a una nuova edizione delle Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana uscita dalla San Paolo in contemporanea con la speciale di Lettera a una professoressa della Lef. È l’epistolario pubblicato nel 1970 da Mondadori, ristampato di continuo in diverse collane e abbandonato proprio in coincidenza col doppio anniversario. Michele Gesualdi, curatore di entrambe le edizioni, introducendo quest’ultima elenca le 12 nuove lettere inserite senza distinguere le inedite dalle già edite. Dichiara poi di aver ripristinato diversi tagli operati nel ’70 per ragioni ormai superate di prudenza o di riguardo, e assicura che quelli rimasti sono «in ogni caso indicati con puntini chiusi fra parentesi quadrate».  Ma non è del tutto vero: accanto a qualche aggiustatura permangono omissioni e sostituzioni di parole e nomi non sempre indicate. Il raffronto fra le due versioni sarebbe lungo, noioso e anche inutile. Quei testi censurati e ammaccati nel 1970 e oggi parzialmente e malamente restaurati conviene piuttosto riscontrarli con le trascrizioni integre, tutte reperibili da un pezzo.
In attesa che chi ne ha competenza tecnica e dovere etico si decida ad almeno impostare un repertorio sistematico e l’edizione critica delle carte e degli scritti milaniani, un paio di esempi, per dimostrare quanto quell’impresa sia necessaria.
Comincio con la lunga lettera dell’11 maggio 1959 a Luciano Ichino. Dal 20 al 26 aprile di quell’anno Milani ha guidato i primi 6 allievi della sua scuola mai usciti prima dai confini di Barbiana alla scoperta delle meraviglie e delle follie di Milano, Fiera, fabbriche e Scala comprese. A gestire la trasferta l’hanno aiutato due suoi amici milanesi, Luciano Ichino appuntocon la moglie Francesca, e un’amica loro, Elena Pirelli, della ditta omonima. Elena non poteva essere a Milano nei giorni della calata di quegli inconsueti turisti che non conosceva di persona ma, lettrice ammirata e propagandista convinta di Esperienze pastorali, aveva messo a loro disposizione un pulmino e organizzato una visita al grattacielo aziendale in costruzione. Nel cantiere un cartello annunciava il licenziamento in tronco di un operaio che accendendo un fuoco aveva messo a rischio la sicurezza dei compagni, ed era nata una discussione accanita sull’opportunità del provvedimento specifico e in genere sulla liceità del licenziamento come istituto.
Pochi giorni dopo il loro rientro, Elena Pirelli era salita a Barbiana per conoscere i ragazzi e il priore e vedere la scuola: decisione molto sofferta di una donna cattolica credente convinta,  e perciò tormentata dalla ricerca di una personale coerenza nella contraddizione fra il privilegio della nascita e il desiderio di vivere il vangelo(18)
All’indomani della visita, don Lorenzo  riferisce agli amici milanesi impressioni e considerazioni proprie e dei ragazzi sull’incontro-scontro dai risvolti parecchio burrascosi anche per la storia del licenziamento, e così chiude:
«Vorrei che questa lettera servisse contemporaneamente tre destinatari (per economia di tempo, non di francobolli) e cioè te, la Francesca e Elena. Spero proprio che esprima il mio pensiero perché coi ragazzi intorno che stanno disegnando con un silenzio molto relativo, non tiesco a controllarlo con un’adeguata rilettura. Comunque ti avverto che è intesa a consolare Elena dei dispiaceri che ha avuto qui ieri e che se a questo scopo non ti pare adatta, la cosa più semplice sarebbe non gliela dare».
Il senso e il valore del discorso stan tutti nella comprensione del conflitto interiore di Elena e nell’analisi insieme affettuosa e impietosa che Milani ne fa. Conflitto intrinseco all’essere Elena una Pirelli. Tant’è che le parti più graffianti del ragionamento sono giocate sulla contrapposizione tra la Pirelli ditta e la Pirelli mamma: un fuoco pirotecnico di battute insieme godibili e laceranti, una lezione per i suoi ragazzi, per se stesso, per gli amici e per chiunque lo legga: un capolavoro di comprensione e insieme di confutazione.
Quando, nel 1959, il priore se l’è portato a Milano e poi a Barbiana l’ha fatto partecipare al proceso di Elena, Michele Gesualdi aveva 15 anni: troppo pochi per capire. Ma quando nel ‘69  ha messo assieme le Lettere del priore, di anni ne aveva 25: gli sarebbero potuti bastare, forse. Invece neppure nel 2007, a 63 anni, mostra di averlo capito: nella nuova edizione della San Paolo sèguita a sostituire il cognome Pirelli con quello del marito di Elena, Brambilla. Cautela oltretutto stupida, essendo a disposizione e ampiamente diffuso il testo originale della lettera con tutti i nomi giusti. Cautela infine offensiva, dopo che Elena stessa ha reso pubblica la nota in cui spiegava per quali ragioni neppure nel ‘69 avesse consentito a nascondere la propria identità: «Quando decisero di inserire alcune di queste [mie] lettere nel loro libro, volevano che io figurassi con uno pseudonimo (che so? Valentina Rossi o Lucia Bianchi!). Dissi che non ci tenevo affatto a comparire nel libro, ma che io mi chiamo Elena Pirelli Brambilla. Altrimenti ritiravo volentieri il plico»(19). Brambilla venne fuori così, compromesso unilaterale neppure contrattato.
Secondo esempio: i quattro aggettivi con cui, scrivendo il 5 marzo del ’64 al proprio vescovo Ermenegildo Florit, don Lorenzo qualificava le «crudeltà» inflittegli dalla curia: «puerili, sadiche, irreligiose, incoscienti». Michele Gesualdi nel ’70 glieli ha censurati e non glieli ha restituiti neppure nel 2007 nonostante già dal 1972 monsignor Capovilla li avesse recuperati e fin dal ‘74 tutti li potessero leggere nel testo originale trascritto da Neera Fallaci(20).
Questi due esempi bastano, credo, a dimostrare come l’eccesso di prudenza censoria possa portare a sbocchi grotteschi, oltre a fare lo sgambetto a chi, come padre Vanzan, si ferma alla prima citazione incontrata e se ne contenta senza verifiche.
Tre libri da leggere e uno no
Fra i libri nuovi usciti nel quarantennio, tre sono di particolare interesse e valore: Don Milani - Una lezione di utopia di Antonio Santoni Rugiu, edizioni ETS, Pisa; Gli anni difficili - Lorenzo Milani, Tommaso Fiore e le ‘Esperienze pastorali’ di Sergio Tanzarella, Il pozzo di Giacobbe, Trapani; Lorenzo Milani - Analisi spirituale e interpretazione pedagogica di José Luis Corzo Toral, Servitum, Bergamo, 2008.
Santoni Rugiu, professore emerito dell’università di Firenze, storico della scuola italiana, fra i protagonisti delle migliori ricerche teoriche e sperimentazioni pratiche dell’educazione attiva nel paese, ci dà la prima intelligente analisi sistematica e laica sugli obiettivi e il metodo della “pedagogia involontaria” del priore di Barbiana nata da quella didattica empirica inventata sul campo giorno dopo giorno per affrontare e risolvere i problemi reali di ogni singolo ragazzo.
Sergio Tanzarella, storico della chiesa e del cristianesimo, docente alla facoltà teologica dell’Italia meridionale, s’è impegnato a contrastare il «facile riduzionismo normalizzante che probabilmente anche in occasione della ricorrenza dei quarant’anni dalla morte dilagherà su parte della stampa». E, pur credente, lo ha fatto con un’ analisi rigorosamente laica delle manovre di mistificazione, strumentalizzazione e appropriazione delle idee, delle azioni e della stessa persona di Lorenzo Milani, a cominciare da quelle di  parte fondamentalista cattolica, le più numerose e insidiose.
Nel bel libro di Tanzarella c’è poi la straordinaria scoperta di un carteggio inedito fra don Lorenzo e Tommaso Fiore, testimonianza di un rapporto di cui nessuno a San Donato e a Barbiana e neppure in casa Milani ha mai mostrato di sapere o ricordare. Un rapporto intenso se pur breve fra due persone così in apparenza lontane e diverse per nascita e storia, «a dimostrazione della possibilità di dialogo tra uomini capaci di valicare le frontiere in nome della comune causa della giustizia sociale e della liberazione dei poveri».
Il 29 dicembre 1958, quando scrive la prima volta a don Milani, Tommaso Fiore ha già 78 anni. Figlio di un muratore e di una tessitrice s’è fatto intellettuale, maestro e professore senza però rinnegare la propria classe. Rimasto dignitosamente povero, ha messo la grande ricchezza culturale conquistata a servizio dei poveri, Ha pagato con la galera e il confino la coerenza antifascista. La polizia gli ha ucciso un figliolo. Azionista durante la Resistenza poi socialista, è fra i cervelli più lucidi e le coscienze più limpide della cultura e della politica del Meridione. Al parroco toscano, che ha intuito essere tanto più giovane (ha 39 anni meno di lui) ma che non conosce di persona, chiede come avere una copia di Esperienze pastorali «di cui ho letto questi giorni su per la stampa» ma che non ha trovato in libreria. E gli spiega perché gli preme averla: «Le confesso che non sono più un credente. Ma mi preoccupo della corruttela sempre maggiore diffusa nel paese da tanta parte del clero. Questo ha perduto quasi del tutto la nozione che non è il suo compito di astrologare intorno alle verità del vangelo ma di metterle in pratica».
Il decreto del santo offizio è del 15 dicembre: il 29 il libro era formalmente proibito da diciannove giorni. Don Lorenzo risponde a Fiore il 9 gennaio: «Ho scritto all’editore che le mandi il libro in via eccezionale quantunque non sia più in commercio. Se lei ha già perso la fede non ha più pericolo di perderla leggendolo!». Il 20 Fiore lo riceve e ci si butta: «È una cosa straordinaria, una specie di vangelo moderno», scrive a un amico lo stesso giorno.
Otto soltanto sono le lettere scambiate in meno d’un mese: cinque da Fiore a Milani, tre da Milani a Fiore: carteggio breve ma doppiamente rilevante, per quello che esplicitamente racconta e per quanto implicitamente ci fa capire di entrambi i corrispondenti e del loro reciproco interesse.
Il pugliese Fiore con alle spalle una lunga vita di impegno e di lotte laiche spesa soprattutto nel Sud in difesa dei diritti, della dignità e della libertà del proletariato operaio e contadino, trova in un giovane prete toscano un alleato altrettanto radicale e intransigente nel rivendicare la legittimità della cultura diversa ma non inferiore, anzi per tanti versi più vera e più sana, delle classi dichiarate subalterne dall’interesse dei padroni.
Milani, 35 anni, da una decina soltanto ha scoperto una realtà insospettata, opposta a quella in cui è nato, e ci si è totalmente immerso con la smania di farla propria per intenderla e aiutare a capovolgerla, trova in Fiore l’incarnazione di quel modello di uomo che s’è costruito ben chiaro in testa e nella coscienza, il cui ritratto ha già ben delineato nel libro e che completerà in Lettera a una professoressa.
Qui sta per loro due il senso dell’incontro e per tutti noi il valore del breve carteggio. Riassumerlo è impossibile: basti indicare l’emergere di una piena sintonia, culminante nella richiesta che Fiore fa a Milani d’aiutarlo a recensire Esperienze pastorali nel modo più esatto e che Milani puntualmente esaudisce. Pratica certo inconsueta e in contrasto con la deontologia codificata del rapporto tra autori e critici ma che nella realtà concreta di questa specifica situazione diventa opportuna in quanto corretta e legittima difesa dalla disinformazione e dalle distorsioni(21).
In conclusione, resta soltanto da aggiungere il nome di Tommaso Fiore all’elenco degli intellettuali patentati che si sono accorti del lavoro, delle provocazioni, delle proposte di Lorenzo Milani vivo. Persone, uomini e donne, che ci si son volute confrontare e se ne sono sapute servire senza aspettarlo morto: Gaetano Arfè, Anna Maria Ortese, Pietro Ingrao, Ernesto Rossi, Clara Urquhart, Raffaele Laporta,Tullio De Mauro, pescandone alcune alla rinfusa. Elenco non foltissimo ma importante, da accostare a quell’altro affollatissimo di insegnanti genitori studenti operai contadini, obiettori professionisti: donne e uomini qualunque che da Milani e dai suoi ragazzi sono stati aiutati a farsi cittadini sovrani.
José Luis Corzo Toral, padre scolopio spagnolo, si autodefinisce “convertito pedagogico”. Nel 1970, a ventisette anni, prete da due, pieno di fervore volontario per aiutare i più bravi a emergere, s’era messo a insegnare in un doposcuola romano. Finché un giorno una studentessa l’ha cacciato a male parole mettendogli in mano una copia di Lettera a una professoressa: la conversione è avvenuta così. Tornato in patria nel ‘71, ha raccolto in un’associazione gli insegnanti della scuola pubblica conquistati dalle proposte milanbarbianesi da lui propagandate(22), ha fondato una casa-scuola per i figlioli bocciati dei contadini, una scuola agraria e ha tradotto in spagnolo Esperienze pastorali,edite nel ’75 a Madrid dall’Editorial Marsiega e ripubblicate nel 2004 dalla BAC, entrambe cattoliche, senza tener conto del decreto vaticano. Nell’‘81 l’Università pontificia di Salamanca gli ha pubblicato Lorenzo Milani maestro cristiano – Analisis espiritual y significacion pedagogica, approfondimento della tesi discussa l’anno prima per il dottorato in teologia. Per l’edizione italiana Corzo, spiega nell’introduzione, non ha integrato né aggiornato il vecchio testo nulla avendo da correggere e ritenendo assurdo aggiornare alla propria maturazione ed evoluzione d’ora le impressioni e la valutazioni d’un quarto di secolo prima. Oltre che una guida all’analisi del pensiero teologico di Milani raramente indagato, il libro è una testimonianza della “fortuna” del priore di Barbiana. Lo arricchiscono una postfazione di Paolo Perticari e una nota di Michele Ranchetti, probabilmente l’ultimo scritto suo, consegnato poco prima della morte.
Per altri volumi e opuscoli, nuovi, ristampati tal quali o rielaborati alla bell’e meglio, non c’è spazio né interesse in questa nota ma di uno non si può tacere: un fascicoletto di 99 pagine edito da Stampa alternativa: Ideario – 280 voci, firmato “Don Milani” e curato da Maria Laura Ognibene e Carlo Galeotti. Vorrebbe essere un’antologia sintetica del pensiero milaniano costruita come un dizionario attorno a parole-chiave cavate dagli scritti. Ma quelle parole vengono ramazzate senza alcun riguardo al contesto e con citazioni approssimative o ermetiche che le rendono sempre irrintracciabili, spesso incomprensibili. Un esempio da manuale di scorrettezza mista a stupidità; e di incoerenza. «Giù le mani da don Milani!» intimano fin dal titolo della presentazione i curatori. Che spiegano nel testo: «Per riandare alla parola milaniana la via maestra rimangono gli scritti. Sarebbe anche opportuno, piuttosto che continuare nella litania delle citazioni di comodo, che qualcuno inizi un lavoro per un’edizione critica». Lavoro fuor di dubbio necessario e auspicabile. Il problema è che s’illudono di dargli avvio con questo loro guazzabuglio di frasi sparpagliate, orgogliosi di averne anticipato un campione nel 1994 nella collana dei “millelire” con una revisione di “Replica ai cappellani” e “Lettera ai giudici” fatta sui «volantini che lo stesso priore ha elaborato e ricontrollato»: non sanno o hanno dimenticato che l’ultimo lavoro di Milani moribondo era stato appunto raccogliere quei testi ne L’obbedienza non è più una virtù, l’unica loro edizione autorizzata e ipercritica.
Nessuno ha l’esclusiva ma tutti la vogliono
L’ultimo capitolo riguarda fondazioni, centri, comitati, gruppi, movimenti: istituzioni vecchie e nuove. Iniziative sparpagliate in tutta Italia: una giungla in cui è arduo orientarsi e distinguere. Tutte hanno fisionomia e funzione in qualche misura pubbliche. Tutte dichiarano di voler raccogliere e custodire quanto è più possibile di e su Milani per diffonderne pensiero e proposte. Nessuna collabora sistematicamente né scambia informazioni con le altre, o perché lo ha con orgoglio programmaticamente escluso o perché semplicemente non se ne cura, e i restanti perché impediti dalla volontà o dall’indifferenza altrui. Navigando su internet si trovano siti d’ogni tipo e gusto, mediamente poco chiari e scarsamente utili per ricerche e approfondimenti. Ci vorrebbe un censimento, e toccherebbe farlo a chi ne ha le forze e il tempo, se ne trovasse la voglia.
La più antica e titolata fra quelle tante istituzioni è il “Fondo Lorenzo Milani” costituito nel 1974 presso l’Istituto per le scienze religiose di Bologna coi documenti e i carteggi familiari donati in vita dalla mamma, gli altri consegnati dai fratelli nel ’79, dopo la sua morte, e i pochi depositati da amici e allievi. In tanti anni ha dato un unico rilevante contributo: l’esemplare edizione critica delle Lettere alla mamma curate da Giuseppe Battelli, messe ora anche in rete. Ha da poco cominciato  la produzione di strumenti multimediali e fatto sapere di voler raccogliere le memorie degli ultimi testimoni dell’avventura milaniana, prima che muoiano. Nessuna avvisaglia invece di quello che per autorevolezza scientifica, capacità organizzativa e risorse dovrebbe essere il suo impegno prioritario: l’impostazione e l’avvio di un’edizione critica di tutti gli scritti milaniani per  finalmente mettere ordine nel caos esistente. Anzi peggio: nel 1982 l’allora responsabile dell’Istituto bolognese, Giuseppe Alberigo, ha bloccato il progetto degli Editori Riuniti preparato da Tullio De Mauro su incarico degli eredi Milani: al momento della firma gli era venuto lo scrupolo che il marchio di quella casa riaccreditasse l’accusa di prete comunista, e non s’e dato da fare per cercarne un’altra(23).
Il Centro di Vicchio e il Gruppo di Calenzano son nati rispettivamente nel 1981 e nell’‘87 per volontà degli allievi della scuola di Barbiana e di San Donato. Anch’essi custodiscono carte, memorie, libri e opuscoli, tesi di laurea; pubblicano saltuariamente testimonianze, riflessioni, atti di convegni e incontri da loro stessi organizzati. Vicchio promuove inoltre traduzioni: ne sono uscite finora di Lettera a una professoressa e de L’obbedienza non è più una virtù in inglese, russo, cinese mandarino, spesso col testo italiano a fronte; se ne stanno preparando in arabo e in maltese(24).
Ultimogenita, nel 2004 anche se programmata e annunciata decenni prima, la “Fondazione don Lorenzo Milani onlus”, impiantata tra Firenze e Barbiana da Michele Gesualdi, che  ha ripulito e riarredato le due aule, il laboratorio e tutti gli ambienti della scuola per aprirli a visite individuali e collettive. Che cosa custodisca è finora un segreto: il suo sito non lo dice né dà notizie dei materiali raccolti dallo stesso Gesualdi poco dopo la morte del priore e dai quali di tanto in tanto vien fuori qualche stralcio.
Cinquantenario pubblico con appendice privata
Quello arrischiato fin qui non vuole assolutamente essere un inventario e men che meno un bilancio dell’anniversario doppio del 2007 da cui son partito, istigato dalla “riabilitazione” di Civiltà Cattolica. È piuttosto il tentativo di proporre chiavi di lettura di alcune fra le cose dette o fatte  nell’occasione e di quelle che prevedibilmente saranno dette e fatte nel 2008 per il mezzo secolo da Esperienze pastorali e dalla stroncatura di padre Perego. Un altro anniversario doppio, e per me personalmente triplo perché in questo 2008 si compiono pure i cinquant’anni dalla mia prima salita a Barbiana, il 16 ottobre 1958: il libro era uscito da sette mesi, ne mancavano due alla condanna.
L’amicizia nata da quell’incontro e durata con intensità crescente fin quando Milani è vissuto, non m’ha fatto cadere e neppur scivolare “sulla via di Damasco”. Intendo dire che io, non credente, cattolico soltanto d’anagrafe, privo di educazione catechistica, ignorante di teologia, estraneo per tradizione familiare alle consuetudini rituali e alle devozioni cristiane, nell’impatto con quell’uomo non sono stato raggiunto dal “dono della fede”, non ho avuto tentazioni né ricevuto sollecitazioni convertitrici. Ho più semplicemente scoperto una dimensione culturale nuova, quella religiosa, con la quale la mia diversa, grossolanamente agnostica, non s’era mai confrontata. Ho capito che le due culture possono invece farlo, e proficuamente, se entrambe oltre a riconoscersi rinunziano a prevaricarsi. Tutto qui: la scoperta dell’acqua calda, diranno i colti e i saggi. Una rivoluzione, per me. Quell’incontro ha cominciato ad aprirmi la testa. Quell’amicizia ha finito col cambiarmi la vita. E a cambiare anche quella di mia moglie, che con la sua ancor maggiore intransigenza laica ha sempre polemicamente condiviso e criticamente stimolato il mio rapporto con don Lorenzo; e quella dei nostri due figli che, transitati da Barbiana ancora bambini, ne han portato e seguitano a portarne il segno. Moglie e figli egualmente mai tentati né sollecitati a conversioni ma anzi rafforzati nella loro ricerca di coerenza etica.
In quest’appendice privata del cinquantenario scade anche il mio vecchio debito: dare testimonianza di come un prete m’abbia aiutato (e m’aiuti) a contrastare gli attentati della chiesa, la “sua ditta”, alla libertà responsabile della mia coscienza laica e all’autonomia dello stato laico di cui sono cittadino. Un prete che fonda la propria laicità su una fede da me non condivisa. Che per fedeltà a dogmi da me inconcepibili e per non rinunziare a sacramenti da me non usati resta dentro la “ditta”, disposto a subirne tutte le ingiustizie però implacabilmente denunciandole. Un prete che con quella sua paradossale “disobbedienza obbedientissima” costringe la ditta a non buttarlo fuori.
A sdebitarmi avevo cominciato sùbito dopo l’incontro, don Lorenzo vivo; e ho sempre continuato dopo la sua morte. Ma arrivato a 84 anni, uno meno di quanti ne avrebbe Lorenzo, il vecchio debito devo estinguerlo per intero, capitale e interessi.
Lungo mezzo secolo ho pubblicato contestualizzandolo come meglio ho saputo tutto quanto di inedito era disponibile, al di fuori dei sequestri e delle appropriazioni indebite, conservato da me o da familiari, amici ed ex allievi. Ho restaurato per come ho potuto le tante carte censurate e ammaccate in varie pubblicazioni precedenti e cercato di dar conto del loro sparpagliamento. Soprattutto ho reso testimonianza, per come li avevo percepiti, di tanti discorsi di Lorenzo: sfoghi, ma anche battute ironiche e divertite. Delle ansie e apprensioni per i suoi ragazzi. Del dolore e della rabbia per le ingiustizie patite. Della durezza del giudizio sui soprusi e della sollecitudine per chi li subisce. Del miscuglio di rigore e di allegria vissuto nell’impegno quotidiano di quella scuola, come lui seguitava a chiamarla con provocatoria civetteria, in realtà una comunità educante e autoeducante. Chi non ne fosse persuaso senta come l’ha vissuta e ce la spiega Enrico Zagli, uno dei suoi primi allievi, con una chiarezza e una capacità di sintesi che vale un intero trattato di psicopedagogia:
«Era una scuola di vita, di pensiero, di denuncia. Era perciò una scuola austera ma dove tutti noi ragazzi, sostenuti da un affetto vigile che poteva arrivare anche alla tenerezza, si respirava sempre una grande serenità. Lo scopo del nostro maestro era quello di fare di noi montanari, timidi e incolti, degli uomini liberi, capaci di affrontare la vita del mondo»(25).
Una scuola-comunità allargata a chiunque vi si affacciasse allora con rispetto curioso, libero da pregiudizi; offerta oggi come proposta di metodo critico e di atteggiamento etico a chiunque voglia servirsene, libero dai giudizi ricattatorii di inattualità inesportabilità irripetibilità e dintorni.
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Poscritto
Appena consegnato questo testo alla redazione di Segno ho visto su Aggiornamenti sociali, il mensile dei gesuiti del San Fedele di Milano, le dieci pagine dell’articolo “Educare alla vita – Le Esperienze pastorali di don Milani cinquant’anni dopo”. I due autori, Christian Albini e Lorenzo Gaiani, riconosciuta la durezza della stroncatura del 1958, la spiegano con lo sconcerto di Perego per «l’estrema libertà di linguaggio» unita alla cruda analisi della situazione pastorale della chiesa italiana e della provocatorietà dei rimedi proposti, in un momento in cui «l’impegno diretto» del cattolicesimo nostrano era volto a «favorire la prevalenza elettorale della Dc». Tuttavia, aggiungono, «vale la pena di ritornare» a quel libro e al prete «coraggioso e radicale» che l’ha scritto perché le sue istanze «possono essere raccolte ancora oggi in quanto in grado di fare da stimolo, se giustamente interpretate, a chi prende sul serio la propria cittadinanza e la propria fede, trasformandole in impegno attivo». 
Un discorso a prima vista tutto interno alla “ditta”, per via di quel richiamo a un giustometro interpretativo il cui uso si sottintende riservato alla gerarchia. Ma a guardar meglio si può intravvedere un’attenzione anche all’uso laico delle «istanze» milaniane e addirittura alla legittimazione di tale uso. E non soltanto per via di quel sostantivo «cittadinanza», così raro nel linguaggio ecclesiastico, ma ancor più per la conclusione: «Le Esperienze pastorali di don Milani provocano a non lasciare le buone intenzioni sulla carta e invitano a passare ai fatti, con coraggio e passione simili a quelli da lui testimoniati per tutta la vita nella missione sacerdotale e nell’attività di maestro ed educatore». Un maestro, l’abbiamo visto, che per educare a cittadino sovrano fa una scuola «rigorosamente laica come quella di un liberalaccio miscredente». Un sacerdote che per meglio testimoniare la propria missione ha il coraggio di staccare il crocifisso.
A questo punto resta da capire come l’inattualità, l’inesportabilità, l’irripetibilità eccetera sentenziate da Civiltà cattolica possano convivere con l’invito di Aggiornamenti sociali a «ritornare oggi» a quel libro e al suo autore. Io, nella mia miscredenza ignorante, neppure azzardo ipotesi. O forse, parafrasando don Lorenzo, sono davanti a una di quelle contraddizioni che soltanto i gesuiti sembrano capaci di comporre?

 

1. In Don Milani e la sua chiesa-Documenti e studi di Massimo Toschi, Edizioni Polistampa, Firenze 1994.

2. Il rimando alla frase della Lettera non è alla pagina di quel testo ma a quella di un libro che la copia senza indicarla. Il passo sulle Barbiane del mondo non è di Milani ma di Balducci in un convegno a Vicchio del 1991 pubblicato successivamente dall’Unità e inserito nella raccolta di testi balducciani L’insegnamento di don Lorenzo Milani edita nel ’95 da Laterza. 

3. La documentazione è nel capitolo “Carteggio Capovilla” da p. 59 di: Lorenzo Milani, I care ancora, Emi, Bologna, 2001.

4. Intervento e replica sono negli atti del convegno, editi da Franco Angeli nel 1990 a cura di Michele Sorice col titolo A trent’anni da “Esperienze pastorali”.

5. Lettera a me del 10 novembre 1959, pubblicata con tagli nell’epistolario curato da Michele Gesualdi per Mondadori nel ‘70, ripresa tal quale nell’edizione 2007 della San Paolo, restaurata nel “Carteggio Pecorini” in I care ancora qui citato nella precedente nota 3.

6. Altra lettera a me dell’8 ottobre 1959, stesso carteggio citato nella nota precedente.

7. La lettera a Meucci è nel n. 100 di Testimonianze, dicembre 1967; l’altra in Alla mamma-Lettere 1943-1947 a cura di Giuseppe Battelli, Marietti, 1990. L’agonizzante è don Daniele Pugi, preposto di San Donato di Cadenzano. Morirà il 12 settembre ‘54. A Milani, suo cappellano dal ’47, la curia nega la successione e assegna la parrocchia di Barbiana di cui aveva deciso e annunciato la chiusura per spopolamento: il modo migliore, credeva, per.neutralizzarlo, dopo i fastidi recati coi suoi metodi e la sua scuola popolare.

8. Obiettivi dichiarati fin dal titolo: “Don Milani fra storia e memoria – La sua eredità quarant’anni dopo”.

9. Le sortite di Lidia Menapace e di Adriana Zarri sono nella rubrica delle lettere del manifesto del 15 e del 22 luglio 1992. Di un contatto Zarri-Milani nella primavera del ’56 e della polemica natane dà conto da pagina 78 il mio Don Milani! Chi era costui?, Baldini & Castoldi 1996 e 2007. I filmini amatoriali 8 e super8 girati dal profesor Agostino Ammannati, amico di Lorenzo e collaboratore della sua scuola, sono stati trasmessi la prima volta nel 1979 in un’inchiesta della Tv della Svizzera italiana. Molti documentari della Rai e di altre produzioni ne usano varie sequenze che mostrano maschi e femmine a studiare e lavorare insieme.  

10. Libreria editrice fiorentina, fondata nel 1902, per decenni punto di incontro e riferimento della straordinaria stagione cristiana della città. Giovanni Papini, Piero Bargellini, Nicola Lisi e Giorgio La Pira fra gli autori del suo catalogo.

11. È l’ultima lettera a me, 7 aprile ’67, in cui quasi implora «che un giornale o due diano per scontato che questo è un lavoro dei ragazzi”. Pubblicata con tagli nelle Lettere curate da Gesualdi e per intero nell’ I care ancora, Emi, “Carteggio Pecorini”(qui nota9).

12. Francesco (o Francuccio o Cuccio) è anche autore di libri su temi ambientali, per un’economia etica, contro i consumismi indotti; collabora in Spagna alla scuola popolare di Corzo Toral con cui ha redatto il manuale Don Milani nella scrittura colletiva pubblicato in Italia nel 1992 con postfazione di Paolo Freire dalle Edizioni Gruppo Abele.

13. Era allegata a una copia dattiloscritta del libro perché lo leggessi in anteprima e lo facessi leggere «a chiunque possa parere utile per il lancio pubblicitario».

14. Insegnante di lettere nelle medie pubbliche, collaboratrice volontaria della scuola di Barbiana dal 1963 fino alla morte di don Lorenzo, che pochi giorni prima di andarsene le regalò una copia di Lettera con questa aggiunta autografa: «Parte quarta: poi finalmente trovammo una professoressa diversa da tutte le altre che ci ha fatto tanto del bene».

15. Il come e il perché l’ho raccontato da pagina 177 nel mio libro, già citato qui nella nota 9.

16, Nella seconda edizione speciale, arricchita di alcuni testi, di particolare interesse ”La descolarizzazione del tempo pieno”, l’articolo in cui Giannozzo Pucci ha trasformato la precedente “Nota” di presentazine: è un invito ad analizzare le affinità tra Lorenzo Milani e Ivan Illich, che «combattono la stessa battaglia». Della seconda speciale la Lef ha fatto in un semestre due ristampe, seguitando a distribuire l’edizione normale.

17. Il “miracolo” lo racconta lo stesso Lorenzo: «[…] non domando al mio editore se l’ha ristampato, e lui non me lo dice, tanto io avevo rinunciato fin dal primo momento ai diritti sicché lui non ha nessun obbligo di dirmelo e lo ristampa di nascosto e io non so nulla, Io non ne ho notizie ufficiali. So soltanto che sei anni fa mi disse che ne è rimaste venti copie, vedo che le vendono dappertutto, queste venti copie sono state evidentemente allungate, diluite non si sa come con solventi». Da “Strumenti e condizionamenti dell’informazione”,  ancora nel mio libro citato qui nella nota 9.

18. Per un approccio alle storie di Elena, di Francesca e della loro amicizia rimando di nuovo al mio I care ancora (nota 3) nel capitolo “I carteggi Ichino e Pirelli”.

19. Nella testimonianza a pagina 212 del saggio Verso la scuola di Barbiana di Domenico Simeone, Il Segno dei Gabrielli editori, 1996, Elena dà conto con fermo pudore del “calvario” che è stato per lei salire a Barbiana e insieme del guadagno che ne ha fatto in chiarezza interiore. Più volte ha spiegato che i ragazzi non volevano il cognome Pirelli per via dei denari che lei aveva mandato, su richiesta del priore, per i loro viaggi di studio, per libri e altre necessità della scuola.

20. È a pagina 205 di qualsiasi edizione della Dalla parte dell’ultimo-Vita del prete Lorenzo Milani, la sua bella, insuperata biografia. ,L’appunto di Capovilla è a pag 75n7 di I care ancora  (qui nota 3).

21. Nel mio piccolo ho vissuto anch’io la stessa apparente contraddizione accettando di far verificare a don Lorenzo l’articolo scritto dopo il nostro primo incontro. La vicenda è documentata nelle prime 6 lettere del “Carteggio Pecorini” in I care ancora, indicato qui nelle note 3 e 5.

22. Movimiento de renovaciòn pedagògica de Educatores Milanianos, Casa escuola, c. Santiago, 1; 37008 Salamanca
e-mail:charro@amigosmilani.es – sito: www.amigosmilani.es
23. Per la nascita del Fondo e la sua gestione vedere l’“appendice” del mio Don Milani! Chi era costui? qui già indicato nella nota 9. La Fondazione per le scienze religiose che lo ospita è in via San Vitale , 114 – 40125 Bologna, tel.: o51239532. E-mail direzione@fscire.it; il sito èwww.fscire.it
24. Il Centro di formazione e ricerca di Vicchio è presso la Biblioteca comunale, cap 50039, tel.: 0558448257. E-mail: info@barbiana.it ; il sito è www.barbiana.it - Il Gruppo di Calenzano sta in via San Donato, 24, cap 50041, tel.: 0558826246. E-mail segreteria@donmilani.eu; il sito è www.donmilani.eu

25. È nella prefazione a Lettera a una professoressa in maltese edita dall’università de La Valletta.

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